Parma. Regista, paesaggista e scrittrice, ha condotto i suoi primi studi nel campo della storia dell’arte e dell’architettura, successivamente si è dedicata al tema rurale e del paesaggio agrario portando alla svolta un argomento poco affrontato, quello delle donne pastore in Italia, nel film “In questo mondo”. Viaggiando per tutta la penisola, ci ha fatto scoprire un vissuto ancestrale che soltanto in pochissimi conoscevano, mettendo in risalto la genuinità di questo angolo di mondo. Ha girato pochissimi film ma la sua arte è stata fin da subito apprezzata perché ha saputo cogliere con occhio clinico particolari importanti, vincendo prestigiosi premi cinematografici. Il trittico costante dei suoi temi sono donna – natura – cibo. Incontriamo Anna Kauber.
Hai un vissuto ricchissimo e molto vario, in continua trasformazione. Quale è stata la tua formazione e quali studi hai effettuato?
Provengo dagli studi di architettura, mi sono dedicata prevalentemente agli interni, successivamente sono passata all’esterno dedicandomi ai giardini. Applicandomi sui giardini ho iniziato a scrivere di realizzazioni urbane, orti botanici e parchi; sui 40 anni ho potuto comprare casa con un giardino ideato da me. Da quel momento è iniziato un percorso di spostamento dell’attenzione dal manufatto realizzato dall’uomo al subentro della natura. Non è stata più come un palcoscenico dove il vivere dell’uomo accadeva, ma è diventata protagonista, quindi l’attenzione dello spazio verde privato ha iniziato a non bastarmi più. Perciò sono uscita dal tema del giardino, ho fatto un master internazionale in “Paesaggi straordinari, natura, arte e architettura” della nuova Accademia di Belle Arti e del Politecnico di Milano, che coniugava tutti i miei maggiori interessi, tra cui la natura “costruita” dall’uomo.
L’Italia è un territorio ideato dall’uomo, non esiste il concetto americano di “wilderness”, cioè “natura selvaggia”, in cui la natura non è stata antropizzata; lo studio del paesaggio italiano che ho intrapreso, del mondo rurale, fa sì che io poi abbia verificato quanto scrittura e mezzo audiovisivo potessero essere i miei mezzi per parlare dei processi di costruzione e di salvaguardia e di modifica del paesaggio urbano, sempre attraverso l’ottica di uno studio approfondito che continuo a fare in una scuola di storia del paesaggio agrario, presso la biblioteca – archivio “Emilio Sereni”, il primo studioso che scrisse il primo testo di storia del paesaggio agrario.
Il tema della pastorizia apre nuovi settori della conoscenza molto fertili, soprattutto andando nell’indagine della specificità di genere, c’è molto campo aperto perché è un argomento poco studiato.
Essendo passata dal campo dell’architettura e della scrittura, ritengo di essere uno di quegli esempi di percorso non lineare, ibrido, che indica una maturità e la ricerca di bisogni nuovi. Ho 62 anni, e ho sempre avuto fiuto per le nuove tendenze: per esempio, la mia relazione col cibo. Già a 20 anni avevo individuato il “cibo biologico”. Ricordo che nel 1985, quando ero a Milano a studiare, abbiamo importato la terribile moda del fast food, quindi sono stata precursore di una coscienza collettiva avendo una forte intuizione.
Come ti sei avvicinata alla sceneggiatura e come è nata la passione per il ruolo di regista?
Il ruolo di regista è nato perché quando ho iniziato a scrivere mi riusciva bene. La storia dell’arte è stata essenziale, una grande risorsa perché mi ha permesso di decifrare dei codici per me nuovi, tra cui la grande attenzione per l’immagine visiva. I chiaroscuri, la luce, l’ombra, i tagli luminosi, le proporzioni, tutti dettagli che ritengo fondamentali; attraverso il mezzo audiovisivo applicavo ancora di più queste mie capacità e risorse attuali.
Quando fai le riprese devi badare a tutto, io le conduco singolarmente, i fenomeni avvengono e devi saperli cogliere; una capacità sensoriale e un’attivazione dei sensi totale.
Siccome è solo da pochi anni che sei regista, hai ricevuto riconoscimenti e premi?
Per questa mia passione tardiva, senza nessuna formazione, totalmente da autodidatta, da neofita, ho girato pochissimi documentari che però hanno riscosso fin da subito molta popolarità. Non ho mai utilizzato il cavalletto e le riprese erano sempre in movimento, ogni inquadratura veniva decisa in una frazione di secondo, perché l’abitudine a progettare spazi mi è servita molto.
Nel 2012 “Ciclone Basmati”, la prima produzione di video che feci, ebbe subito grande successo, ha vinto un concorso d’arte cinematografica internazionale e l’hanno trasmesso su Sky TV.
Il mio ultimo film si chiama “In questo mondo”, è nato da una ricerca di due anni, che mi ha portata a viaggiare ininterrottamente in tutta Italia, a raccogliere la vita delle donne pastore italiane. Le finalità erano multiple: si affrontava il tema della natura nel suo essere libera e il tema delle donne a contatto con quest’ultima, svolgendo un lavoro che è stato per la maggior parte del tempo solo maschile.
Partendo nel 2015 e terminando le riprese nel 2017, da sola e senza troupe, ho vissuto con centinaia di pastore in tutta Italia per alcuni giorni. Un viaggio di circa 17.000 km percorsi e di 100 interviste rivolte a donne pastore di età compresa tra i 20 e i 102 anni. Il mio intento era di approfondire una ricerca di genere, svelandone i passaggi ancora oscuri per noi. Ho prestato tantissima attenzione alla ricerca dei particolari dei suoni naturali, come il registrare il suono del vento, il belare delle pecore, il calpestio sul prato, il rumore delle campane del gregge. Seguivo con grande attenzione la nascita degli agnelli, la tosatura e la mungitura fino alla lavorazione e alla stagionatura del formaggio, ma anche della carne e della lana. Ho voluto restituire un quadro complessivo ma esaustivo delle nuove esperienze della memoria della pastorizia.
Il film ha vinto molti premi, tra cui il Torino Film Festival come miglior documentario, al Trento Film Festival ha vinto il Premio Speciale, e a Brescia il Premio Musil.
Ho ricevuto altri Premi per gli altri temi: il Premio Speciale Pontrepoli di CIA (Confederazione Italiana Agricoltori), Cultura della Montagna nel 2018; nel 2019, invece, Legambiente Italia mi ha conferito il Premio Ambasciatrici del Territorio; il Corriere della Sera mi ha premiata con il Cook Awards nella categoria Food Reporting; il Premio Garganello d’oro per la promozione della cultura del cibo.
Oltre al tema delle donne pastore e della natura, nelle altre pellicole quali altri temi ha affrontato?
Il mio focus è la relazione tra l’uomo (e soprattutto la donna) e la terra, nelle varie declinazioni, in una dimensione sociale, antropologica, ecologista.
“Ciclone Basmati” fu un’esperienza che feci in India da questo importante scienziato, che ha una banca dei semi autoctoni che distribuisce gratuitamente contro le multinazionali del cibo. Ma ho affrontato anche il tema dell’immigrazione e soprattutto il tema del cibo come veicolo fra culture.
Inoltre, mi sono occupata del mondo rurale e del tema delle donne nella diversificazione del lavoro contadino, recuperando gli antichi mestieri nel film “Ritratti di donna e di terra” nel 2015.
Nelle vesti di regista hai dei punti di riferimento a cui ti ispiri?
Sono abbastanza onnivora, per il documentario c’è Cecilia Mangini, Franco Piavoli, Vittorio De Seta. Alcuni di loro hanno visto il mio film e sono rimasti contenti del mio contributo, sentendolo come un “piccolo figlio”; ho incontrato Cecilia Mangini nella cineteca a Bologna, nel 2019: profondamente commossa, dopo aver visto la mia pellicola, ha esclamato “finalmente torno a vedere il cinema del reale”.
Crediti foto Linda Vukaj.