Milano. “Frode” è il nome di Domenico Melillo, street artist e avvocato penalista di professione. Due facce della stessa medaglia ma anche due dimensioni in aperto conflitto. “Frode” nasce nella periferia milanese come militante dell’arte urbana, consapevole del valore intrinsecamente illegale del writing da cui nasce la street art che noi oggi conosciamo. Per tale ragione, anche, assume le vesti di difensore di coloro che esercitano questa libertà d’espressione artistica sulle facciate degli edifici delle città e non solo. Da legale, negli ultimi dieci anni, è riuscito significativamente a contribuire nello sviluppo di un orientamento giurisprudenziale in favore del writing e della street art raggiungendo vittorie importanti a tutela dei propri assistiti. Questo percorso di ricerca, giuridica e artistica, muove certamente da una sensibilità spiccata e si pone nella direzione di un discorso collettivo. L’arte come veicolo per ricostruire l’identità di un luogo precipuo che nel gesto e nella creatività del contesto urbano sente di essere comunità. Per farci raccontare parte del processo creativo, abbiamo raggiunto “Frode” nell’intervista che segue
In precedenza hai chiarito il significato relativo alla scelta del tuo nome d’arte; dal punto di vista giuridico, ti chiedo, secondo te è auspicabile un compromesso tra arte di strada e diritto?
Ciò che viene prodotto in strada nel significato autentico creativo di “Strada”, nasce come qualcosa in contrapposizione con il “Palazzo”. Il dna del writing è l’illegalità, ovvero la creazione spontanea in un contesto non autorizzato, spesso con sfida o contestazione rispetto a ciò che rappresenta il socialmente-preordinato. Ciò equivale all’esatto posto delle basi proprie su cui si fonda il Diritto in senso lato. Il che non significa che non esistano punti d’incontro tra Leggi ed espressione autentica in strada ed è peraltro ipocrita sostenere che ciò non sia possibile. Tra gli autori di quella produzione, che i più indicano come “street art” e poi come urban art, post graffiti e mille altri termini, i lavori in contesti di illegalità veicolano qualcosa che comunque non può dirsi certamente spontaneo. Spesso si ritrova dietro la ricerca più o meno esplicita, non ultima anche la finalità di marketing, proprio o per conto terzi.
Quindi illegalità non equivale a spontaneità. E in ogni caso spontaneità non vuol dire autenticità nell’arte. Tantomeno artisticità dell’intervento. Lo stesso si dica per i radicalisti della visione del writing, che spesso si appellano Phase 2, Vulcan, Rammelzee etc. ovvero i pionieri del writing, per cercare di giustificare la propria vision “opposta” alla mercificazione dell’arte di strada. Anche in questo caso niente di più falso: esattamente gli stessi pionieri nell’illegalità hanno aperto con la loro arte anche tutto un filone commerciale, esposto in galleria, producendo parallelamente in pieni contesti di legalità.
In definitiva è sempre esistito il compromesso di quest’arte, poiché il compromesso è umano ed umani sono gli artisti e tutta l’arte è scesa sempre a compromessi con il sistema. Se vogliamo poi raccontiamocela diversamente perchè è bello sentirsi ancora outsider, ma la verità ormai è che anche nel writing di outsider c’è ben poco.
Le tue opere sono il frutto di una ricerca non solo estetica ma anche contenutistica; quando sei chiamato a realizzarle, quale criterio prende il sopravvento?
Il concept di un’opera è per me una specie di diario. Non ho mai disegnato qualcosa che mi fosse imposto dal fuori, quindi tutto ciò implica un processo di ispirazione, che si base su contatti umani, approfondimenti, coinvolgimento diretto in storie e persone vere. Credo non ci sia una vera separazione in fase realizzativa di un’opera, tra quello che è il contenuto ideale che voglio esprimere e la sequenza gestuale per portare il pensiero in forma visuale.
La ricerca artistica diventa un impegno nel reggere l’equilibrio necessario tra questi due aspetti, per tradurre in estetica ciò che il pensiero ha colto dell’idea ispiratrice. Quando agisco su qualsiasi superficie, specie in strada, seguo il filone del viaggio che mi ha portato lì in quel momento. Il colore e le forme sono gli ingredienti e per mischiarli nel modo giusto occorre sia un ragionamento sulle proporzioni e composizione. Non solo, perché occorre lasciare spazio alle sensazioni e percezioni visive delle parti che piano piano si compongono come in un puzzle. L’attitudine è quella di vivere al momento gli abbinamenti e l’effetto visivo rispetto al contesto circostante. Ciò si coglie attimo per attimo, portando magari ad effettuare cambiamenti radicali rispetto al progetto iniziale.
Nella tua rappresentazione della Dea Bendata, la Giustizia, lungamente indagata dalla tradizione iconografica occidentale, cosa hai voluto mettere in rilievo?
Nel 2015, in occasione di una vittoria molto importante in Corte d’Appello a Milano a favore di uno street artist, ho rappresentato sotto un passante ferrioviario e anche con l’aiuto del mio assistito, una riproduzione della statua sita nel cortile del palazzo di giustizia (di Attilio Silva) intitolandola “Iustreetia”. L’idea è nata come una forma di provocazione e come decontestualizzazione dei simboli del “Palazzo” riportati alla “Strada”. Una forma di riappropriazione della collettività dei simboli dell’arte collegati all’equità sociale. Gli strumenti in mano alla dea giustizia sono diventati quelli dell’arte di strada, in modo che il simbolo si declina in una specie di divinità degli artisti che scelgono la libera espressione in strada piuttosto che le tradizionali vie.
Nel tuo percorso creativo, spesso ti sei trovato a collaborare con importanti artisti; in particolare, con Giuseppe Siniscalchi – ideatore della filosofia estetica nota come “Fronteversismo”– hai realizzato “Luci e Ombre nel Creato”, esposta presso il Museo-Pinacoteca S. Egidio di Taranto. Ci racconti qualcosa di questa speciale collaborazione?
Ho sempre visto il lavoro in strada come possibilità di scambio e contaminazione tra idee e stili. La mia non nasce infatti come ricerca artistica, ma come contestazione e ricerca di spazio di libera espressione. Pertanto ho collaborato con tanti artisti differenti, per produzione e personalità e tutt’ora il mio lavoro avviene spesso in compartecipazione con altri creativi, soprattutto trattandosi di lavori muralistici, quindi di per sé diretti alla pubblica e libera fruizione.
Ho conosciuto Giuseppe perché entrambi parte di un bel progetto all’interno dell’Ordine degli Avvocati di Milano, una commissione destinata ad approfondire il diritto dell’arte in genere. Quando mi ha proposto di collaborare in un convento annesso al Duomo a Taranto, ero abbastanza scettico, in quanto temevo di non trovare le condizioni idonee a favorire una mia libera creazione. Mi sono dovuto ricredere ed è stata davvero un’esperienza creativa oltre che umana molto intensa e appagante.
Con uno sguardo socio-politico alla crisi umanitaria dell’Afghanistan che vede nell’identità femminile uno dei principali bersagli, da artista, hai in cantiere di realizzare un’opera tematica?
La situazione afgana è al centro dell’attenzione internazionale da molto tempo. Soltanto ultimamente però l’opinione pubblica pare essersi accorta delle implicazioni delle politiche del regime sulla gente comune, in particolare sulla libera espressione delle donne, ciò in parte grazie ad una serie di immagini artistiche legate alla produzione in strada di una street artist del luogo. È nata su questa scia una bella collaborazione trasversale, in cui sono attualmente coinvolto proprio da Giuseppe, che porterà di certo a breve dei frutti.