Roma. Al Teatro Vascello di Roma, in prima nazionale il 25 marzo e fino al 3 aprile, va in scena “Elettra”. Il dramma mostra tre personaggi femminili spezzati, che vivono nel desiderio di essere altro da ciò che sono: chi madre ed è figlia (Crisotemi), chi figlia ed è orfana (Elettra), chi vittima ed è carnefice (Clitennestra). E non è affatto semplice riuscire a trovare le parole per narrare la zona di confine, l’ibrido, la soglia, il doppio, la complessità; spesso si entra nella balbuzie, nell’inciampo linguistico, nell’incapacità di far proseguire la frase: “Le parole astratte, a cui la lingua, secondo natura, deve pur ricorrere per esprimere un qualsiasi giudizio, mi si sfacevano nella bocca come funghi ammuffiti”.
“Servirsi dell’antichità come uno specchio magico in cui speriamo di ricevere il nostro proprio volto”. Parte da questo impulso intellettuale Hofmannsthal, accingendosi alla riscrittura del classico sofocleo. Spoglia l’immagine dei miti da ogni possibile dimensione storica, culturale e antropologica, restituendo corpi secchi, minimali, fuori da qualsiasi retorica e pathos. Rovescia sopra le pagine del mito una bottiglia di whisky e lascia vivere i personaggi in un’ebrezza feroce, senza tregua, in una sorta di spazio onirico in cui si è più ombra che figura. Elettra, così ci appare, come una grande messa in scena della psiche, con i protagonisti alla ricerca delle parole con cui raccontarsi; quelle parole, quella lingua, che non hanno accesso agli abissi della vita.
Lo spazio è un delirio di ombre/fantasmi che, ben in vista, si nascondono, rendendo il luogo lugubre e pieno di insidie. Le tre donne, immerse nella più assoluta solitudine, non sono, in verità, mai sole. Uomini, per lo più mezzi uomini, spiano da ogni angolo, e giudicano le azioni delle loro madri, figlie, sorelle, amanti. I legami sono spezzati, per sempre.
“Tanta famiglia e così poco simili” risponde Amleto allo zio Claudio che lo sollecita sul tema. Mi piace pensare che Hofmannsthal, grande amante di Shakespeare e ossessionato dal Principe, sia partito proprio da qui, da questa battuta, per la sua Elettra. C’è molta, troppa famiglia, dentro le teste delle tre donne. C’è molta, troppa memoria del maschio/padre. Bisogna liberarsene, eliminarlo, se necessario ucciderlo e subito dopo abbandonarsi al silenzio” – conclude il regista Andrea Baracco.