Roma. Il 28 e il 29 settembre, nella Sala Petrassi dell’Auditorium Parco della Musica di Roma, è andato in scena, in prima nazionale, lo spettacolo “Any attempt will end in crushed bodies and shattered bones” che vede il ritorno del coreografo fiammingo, Jan Martens, al Romaeuropa Festival.
Protagonista della danza contemporanea internazionale, Jan Martens prende in prestito per il titolo del suo lavoro una frase pronunciata dal presidente della Repubblica Popolare Cinese, Xi Jinping (“Ogni tentativo finirà con corpi schiacciati e ossa frantumate”), durante le proteste a Honk Kong nel 2019. È propria da questa brutale dichiarazione che lo spettatore riesce ad avere un’idea delle intenzioni del coreografo, il quale prova ad esplorare la protesta, la ribellione, la disobbedienza civile e a dare una risposta a tanta violenza.
Egli, infatti, insieme al suo gruppo GRIP, compagine eterogenea di performer tra i 16 e i 69 anni, cerca di creare uno spazio per più voci, più età, con una varietà di corpi differenti: partendo da una visione individuale, ognuno cerca il proprio posto sul palco ma senza sottrarlo agli altri, costruendo a poco a poco una armonia collettiva.
Prima soli, poi in piccoli gruppi e infine in una moltitudine, i performer sono isole in movimento che vengono assorbite in un flusso generale: le danze personali si alternano a ripetute camminate che seguono le linee tracciate sul palcoscenico dando vita a marce collettive di grande precisione e controllo. Tra speranza e delusione, questo insieme di individui prova ad esplorare la possibilità di contrapporsi all’ingiustizia e Jan Martens, pur mantenendo una sua personale espressione, utilizza altre voci di protesta.
Le musiche utilizzate nella performance così come i testi parlati e proiettati sullo sfondo appartengono, infatti, ad autori simbolo di oppressioni: da Henryk Górecki a Max Roach, da Abbey Lincoln a Kae Tempest. Il coreografo introduce nel suo lavoro i linguaggi violenti che caratterizzano la comunicazione del nostro tempo con frasi che inneggiano all’odio e che vediamo provenire dai social e dai vari mezzi di comunicazione, utilizzate molto spesso anche dai potenti di turno. Egli, esplorando la possibilità di resistenza, chiede ai suoi performer di liberarsi da ogni dogma e di essere se stessi, facendo della danza un luogo ideale di libertà e di democrazia. Quella che dovrebbe essere una vera e propria ode alla ribellione, però, perde in parte il suo vigore a causa dell’eccessiva ripetizione dello schema dello spettacolo, necessaria, evidentemente, per il coreografo.
Vestiti con abiti sfumati di grigio, tutti diversi tra loro per la gran parte del pezzo di 90 minuti, sul finale c’è un cambiamento di colore e di atmosfera. In un cupo bagliore rosso, vengono introdotti in scena due guardaroba di indumenti: ogni performer sceglie il proprio costume e, a luce piena, tutto si tinge di un vivido scarlatto.
La performance si fa, quindi, più espressiva e gioiosa, più vibrante e liberatoria, anche se la danza resta immutata e il significato di tale trasformazione non appare del tutto chiaro. Jan Martens afferma: “Quando puoi rivendicare il tuo spazio o parlare sul palco, diventa più facile rivendicare il tuo spazio nella società” e il rosso è, forse, il colore più adatto per farlo in quanto associato a rabbia, sangue, ma anche a forza e amore.