Caserta. Dopo “Devil Kiss” e “Seducente Follia”, il gruppo musicale I Signori Delle Moske giunge alla realizzazione del terzo album, questa volta caratterizzato dalla preziosa collaborazione di Mauro Baccigalubi. Una sinergia, umana e artistica, ha quindi portato alla creazione di “White Demon”, i cui testi sono stati composti dal frontman Silvio Donandoni, mentre la copertina del disco è stata ideata da Flavio Lombardi.
“White Demon” è la traccia che dà nome al disco, fruibile su Spotify e Youtube. Un brano dal taglio pop-rock, caratterizzato da una cornice musicale graffiante e sorretto da un testo quanto mai provocatorio “ma quanti sogni con le calcolatrici?”, è la domanda che il cantautore pone all’immaginario diavolo bianco col quale intesse un colloquio surreale e maledetto, al fine di inchiodarlo alla verità della vita.
A seguire “E si fa tardi”, il cui video è girato da Simone Cartaginese in esterno notte, rigorosamente con la tecnica del bianco e nero, quasi a voler scrivere, con la potenza delle immagini, ciò che la musica mette a fuoco: la strada, con le sue sirene solitarie e la generazione dei ragazzi che l’hanno attraversata, talvolta perdendosi ma anche rinascendo come nell’esperienza di Donadoni. “E si fa tardi” è un pezzo romantico, confessa l’autore, in quanto richiama i trascorsi della vita precedente, abitata dagli incontri e anche dall’amore.
È un brano che mette al centro la consapevolezza dell’oggi e si presenta come una sorta di dialogo con una donna: “Questa è la mia vita, se vuoi, tienitela, anche se non puoi adesso chiedila…” una esortazione a vivere, nonostante tutto. Parole che si collegano fortemente ad un altro brano del disco, “Il tempo per continuare”, che giunge come un allungamento di significati, nei versi “se l’amore consola, la fame divora, questa è la rabbia ora per ora”. Ciò che l’autore canta è la sua condizione, un grido di resistenza ma anche un inno alla vita, passando giù per l’inferno.
Successivamente, si scorgono altri due brani musicalmente differenti ma entrambi ancorati all’aspetto sociale dell’intero album, “I fuochi di Antonio” e “Dio c’è”. Il primo, mette al centro il disagio di un giovane uomo, i suoi occhi stregati, quelli di tutte le sere, sullo sfondo di una ballata dai toni cupi che fa leva sulla richiesta di aiuto di questi, ripetuta per tre volte, come un antico mantra dalle origini tribali.
“Dio c’è” è invece un omaggio alla città del cantautore, Caserta. “La città è deserta, una schiena scoperta, come una porta chiusa invece sta aperta”. La città che vive nel cuore, che a viverla con la serenità ritrovata è capace di regalarti un sorriso, grazie anche alla sua distesa di ricordi e voci, di quell’infinito tempo della gioventù. Una canzone poetica che alla fine, lascia la speranza che va oltre il vento e “il male che nuoce mentre si danza su fili di voce”.