Napoli. Dal 3 al 12 maggio al Ridotto del Teatro Mercadante, a chiusura della sua stagione teatrale, è in scena “Gli abitanti” di Alessio Forgione, con Arturo Cirillo alla regia.
È un testo della cosiddetta drammaturgia consuntiva, come il teatro di Shakespeare, Molière, Goldoni ma anche di Eduardo De Filippo e Dario Fo, perché la trascrizione su carta dei personaggi, dei loro rapporti e delle loro dinamiche è stata realizzata tenendo presente chi l’avrebbe portata effettivamente in scena.
Sarebbe interessante la lettura dello scritto per comprendere dove e quali siano state le incursioni dei suoi amici attori e quale sia, al contrario, la portata delle didascalie. Se vi sono.
Una scrittura allora a servizio degli attori, avendo ben chiare le loro attitudini e capacità di resa, partendo dal testo fisico, vale a dire dalle azioni, senza battute, per poi arrivare all’elaborazione del testo linguistico, formato da elementi verbali, non verbali e paraverbali.
Questo appare evidente nella brava Martina Carpino, nelle vesti di una donna ingabbiata in un lungo rapporto amoroso ormai esauritosi, che ha ricordato molto Anna Marchesini, non certo nell’elemento comico ma nella caratterizzazione del personaggio tramite la sua gestualità e il discorso che lei chiamava disconfermante, ossia contraddittorio, tanto da dare l’impressione di non stare dicendo nulla.
E in Domenico Ingenito, che si muove in scena, padroneggiandola nei tempi e nello spazio, a sua volta stimolato dal testo linguistico, nei panni barocchi di un uomo alla ricerca del suo gatto Oliver scappato in seguito – a suo dire – del terremoto, che ha distrutto tutto, capace con la sua mimica facciale, i movimenti del corpo e i cambi di ritmo di trasmettere allo spettatore la sua energia vitale.
Gli altri due abitanti di questo luogo non definito sono Luciano Dell’Aglio, nel ruolo del chirurgo, che trascina avanti la relazione con la donna e Daniele Vicorito, che si è svegliato in seguito al boato e non ha ritrovato più i figli e la compagna che amava.
Il racconto si svolge interamente al buio, illuminato solo da una piccola torcia che finisce per esaurirsi, forse più per la paura che questo si verifichi, gestita dal padrone del gatto.
In un palcoscenico completamente vuoto, pare per evitare distrazioni da tutto quello che non sia l’animo umano e la sua “notte oscura”.
Forgione ha la capacità nei romanzi, e ora pure a teatro, di scrivere di sé e dei suoi amici, eliminando a tal punto – come dice lui stesso – le sovrastrutture che quella storia da personale diventa universale, e la scelta di non definire in maniera precisa il tempo e lo spazio del racconto aiuta lo spettatore nell’opera di immedesimazione.
Difficile però da quanto detto o solo accennato dai personaggi non identificare quella città con Napoli e il suo degrado. O forse questo semplicemente accade perché “gli occhi con cui guardiamo il mondo sono di un napoletano”.
Crediti foto: Ivan Nocera.