Milano. Da oltre una settimana è disponibile su Netflix (e ancora al primo posto tra i film più visti) “Sei nell’anima”, il nuovo biopic su Gianna Nannini diretto da Cinzia TH Torrini e scritto con Cosimo Calamini, Donatella Diamanti e la stessa rocker, basato prevalentemente sull’autobiografia “Cazzi miei”, edita da Mondadori nel 2016.
La trama si concentra in particolar modo sui primi trent’anni della vita della rocker. Per essere precisi, della sua “precedente” vita, perché Gianna racconta di essere “nata” proprio nel 1983, dopo un periodo di profonda crisi.
Restituire in due ore scarse di film un personaggio come quello di Nannini, così prismatico e ricco di sfumature, è un’impresa assai ardua, ma questa pellicola ha il merito di riuscire a raccontare bene una storia, puntando volutamente di più sul trasmettere la dimensione emotiva della protagonista che sull’esigenza di portare in scena necessariamente tutti gli eventi (musicali e non) accaduti nel corso dei suoi primi trent’anni.
Ai più attenti e ai tanti estimatori della rocker (come lo è chi scrive) non potrà senz’altro sfuggire la mancanza di alcuni passaggi o l’inesattezza – dovuta all’adattamento cinematografico – di alcune ricostruzioni, ma del resto questo rappresenta un po’ il “limite” naturale di questo genere cinematografico, che spesso rischia di risultare didascalico o andare troppo di corsa, cercando di dire tutto e finendo per dire nulla. Ecco perché la scelta di porre maggiormente l’attenzione sul periodo del crollo psichico vissuto dall’artista nei primi anni ’80 rappresenta una scelta che funziona, perché permette di far conoscere allo spettatore la dimensione più intima e personale di Gianna Nannini: l’infanzia, la fuga da Siena a Milano per inseguire il sogno della musica, l’importanza del rapporto burrascoso con il padre (messo in luce dall’ottima interpretazione di Maurizio Lombardi) che aveva in mente per lei un altro futuro, l’amore incondizionato per la compagna di una vita, ma anche il buio e la (ri)nascita.
Tra i maggiori punti di forza del film la brillante interpretazione dell’attrice che presta il volto alla rocker, Letizia Toni, a cui va riconosciuto il merito di non inciampare mai in una caricatura del personaggio, cosa che spesso può accadere quando ci si confronta con tratti personali così caratteristici come quelli di Nannini. Lo spettatore ha invece l’impressione che Toni riesca ad interpretare in maniera molto convincente la cantautrice (grazie anche ad un’evidente somiglianza fisica) restando però, in qualche modo, fedele a sé stessa. A parere di chi scrive funziona bene anche l’alternanza tra le scene in cui a cantare è la giovane attrice (che per l’occasione ha approfondito lo studio del canto con l’aiuto della stessa rocker) e quelle dal vivo in cui viene utilizzata la voce originale, in un equilibrio che riesce a non generare un eccessivo senso di straniamento.
Da un punto di vista narrativo, lo si è detto, tema centrale del film è la crisi personale e artistica vissuta nel 1983 (una data che dà il titolo anche ad uno dei brani contenuti nell’ultimo disco di inediti), un periodo in cui la stessa artista racconta di avere “sperimentato la follia”. Tra i tanti i motivi che hanno contribuito a generare questa sorta di blackout cerebrale vi sono le pressioni dell’industria discografica e dei manager che le impongono di sfornare “hit”, così come il sovraffollamento di impegni destabilizzanti (anche da un punto di vista fisico) come quello per le riprese – sempre notturne – del film “Sogno di una notte d’estate” di Gabriele Salvatores (non menzionate nel corso del film), che le hanno fatto confondere il giorno con la notte.
Sebbene non sia affatto semplice trasferire su pellicola dinamiche di una tale complessità psicologica, la scelta di alcuni espedienti narrativi (come quello del personaggio di Marc) e la maestria registica della Torrini riescono a portare a casa un risultato che convince, accompagnando lo spettatore in un percorso di empatizzazione con la protagonista.
A fare da cornice alla storia c’è tutto il resto: le atmosfere europee di un periodo storico come quello degli anni ’70 e ’80, la ricerca musicale al fianco di uno dei maggiori produttori mitteleuropei dell’epoca come Conny Plank, il tema del femminile, le battaglie (come quella per l’aborto che emerge nel brano degli esordi “Morta per autoprocurato aborto”), il ruolo del rock in quegli anni e l’impatto dirompente e innovativo della cantautrice nel panorama italiano e ancor prima tedesco.
A fronte di alcune scelte meno riuscite, sia nel cast (come la scelta di Andrea Delogu che non convince appieno nei panni di Mara Maionchi) che nei ritmi narrativi (l’eccessiva velocità iniziale con cui vengono raccontati alcuni episodi che avrebbero meritato più importanza e l’assenza di altri), il film scorre velocemente alternando i diversi piani temporali, con un giusto equilibrio tra lo spazio riservato ai dialoghi e quello destinato alla musica, senza mai risultare prevedibile.
In definitiva, sebbene catturare totalmente l’essenza di Gianna Nannini sia praticamente impossibile, “Sei nell’anima” sembra l’occasione perfetta per far (ri)scoprire ad un pubblico più ampio ed eterogeno alcuni aspetti significativi ma poco noti di una delle artiste più importanti nella storia recente del nostro panorama musicale. Allo stesso tempo, questo film racconta una storia universale, che potrebbe anche prescindere da Nannini: una storia di libertà, anticonformismo, rifiuto di ogni categorizzazione, coraggio e affermazione di sé, raccontata con sincerità e una buona dose di schiettezza, senza eccessive autocelebrazioni o sforzi di ovattare la realtà.
Ecco che la storia di Gianna, seppur senza alcuna pretesa “didattica”, si fa portatrice di messaggi e valori da cui c’è invece ancora molto da imparare, restituendoci l’immagine di un’artista ribelle che non si lascia mai afferrare, ma la cui più grande forza, probabilmente, è proprio questa riscoperta fragilità.
Crediti foto: Ralph Palka.