Napoli. Dal 14 al 26 maggio è in scena al Teatro Bellini di Napoli “Il caso Jekyll”, tratto dal romanzo breve di Robert Louis Stevenson pubblicato nel 1886, in un adattamento di Carla Cavalluzzi e Sergio Rubini.
Nel farlo, però, i due hanno abbandonato il carattere gotico e fantastico di Stevenson, con i suoi elementi soprannaturali, nonché la critica – sarebbe suonata anacronistica – ai miti dell’età vittoria: il progresso scientifico, la morale borghese, l’onorabilità.
Gli autori hanno privilegiato, invece, quella dimensione dell’inconscio incarnata da Hyde, secondo più l’insegnamento di psicologia analitica di Jung che quello del rapporto conflittuale tra Io, Es e Super – Io proprio della psicoanalisi freudiana, che il romanzo originario anticipava.
Hyde così incarna l’Ombra, quella figura proiettata sulla parete, che insegue l’uomo anche quando se ne vuole allontanare, ed è a lui uguale nella forma e dimensione ma opposta nei movimenti e nella direzione.
L’Ombra però non esiste senza la Luce – Jekyll nella narrazione – perché qualsiasi corpo immerso nel buio ne è privo. La Luce e l’Ombra – Jekyll e Hyde – sono metafore del Bene e del Male, del Positivo e Negativo che albergano in ciascun essere umano, che ogni soggetto però nega appartengano a se stesso, mentre individua negli altri quelle mancanze che non sono altro che le proprie, proiettate all’esterno.
La rappresentazione di cui Sergio Rubini ha firmato anche la regia presenta alcuni tratti della struttura della tragedia classica: nel prologo iniziale, a sipario chiuso, recitato da Jekyll (un ottimo Daniele Russo, che raggiunge l’eccellenza quando veste, sarebbe più corretto dire sveste, i panni di Hyde), che conquista il palcoscenico salendo dalla sala.
Ancora, nella funzione di riflessione ed educazione intorno alla natura umana, attraverso la messa in scena di una storia notoria, di cui risulta rilevante il modo in cui viene resa.
Per poi unire alcuni tratti del teatro di narrazione, in cui il performer (Sergio Rubini, che impersona anche uno degli amici di Jekyll, Hastie Lanyon), circondato dai pochissimi mutevoli oggetti di arredamento, è la voce narrante che, riducendo al minimo i gesti e il dinamismo, rievoca storie e vicende, sopprimendo il principio della finzione scenica, per sollecitare una coscienza collettiva intorno al tema affrontato.
Egli si presenta come testimone di un’esperienza da condividere e attraverso la quale cerca di spiegare la realtà umana per mezzo della voce, strumento cui affida verità più profonde.
Sceglie gli aspetti della storia cui dare maggior risalto, mettendoli in relazione tra loro, offrendo così una sua personale interpretazione e non è un caso che ad assolvere a tale ruolo sia uno degli autori, che arricchisce il testo preesistente di particolari e notazioni.
Grande cura delle scene (Gregorio Botta) e della scenografia (Lucia Imperato) nel riprodurre l’idea di una Londra di inizio ‘900 immersa nel fumo e nella nebbia.
Bravi anche gli altri interpreti (Roberto Salemi nei panni di Richard Enfield, cugino di Utterson, Angelo Zampieri, il domestico Poole, e Alessia Santalucia, Elizabeth, moglie di Jekyll), tra tutti menzione particolare a Geno Diana nella parte dell’avvocato Gabriel John Utterson.
Infine, una notazione speciale merita il suono, che rappresenta una delle chiavi del successo di questo spettacolo: esso, infatti, è stato affidato ad Alessio Foglia, sound designer teatrale che svolge contemporaneamente il ruolo di rumorista cinematografico.
Dalla sua postazione sul palco sonorizza dal vivo i rumori e gli effetti dello spettacolo, attraverso un lavoro non semplice di sincronizzazione con gli attori, suoni mixati dal fonico in sala Massimiliano Tettoni.
In questo modo la narrazione mantiene un ritmo incalzante, con alcune scene il cui movimento, per la velocità, sembra più riprodurre quello cinematografico piuttosto che quello teatrale.
Crediti foto: Flavia Tartaglia.