“Parthenope”, Paolo Sorrentino torna al cinema con un nuovo dolore da raccontare

Napoli. Dopo tre anni dall’uscita di “È stata la mano di Dio”, Paolo Sorrentino ritorna sul grande schermo con “Parthenope” perché ha un dolore da raccontare.
Lo dice già nel film precedente del 2021 per bocca di Capuano, il regista amato da Fabietto, ed è da qui che bisogna partire per comprendere la nuova opera.
Il dolore di cui parla è senza speranza, perché “la speranza fa fare film consolatori, la speranza è una trappola… bisogna avere qualcosa da dire… la fantasia, la creatività sono falsi miti che non servono a un cazzo.” (parole di Capuano).
Roma, dove Fabietto vorrebbe andare per imparare a fare il cinema, è la fuga: “so’ palliativi do’ cazzo. Alla fine torni sempre a te Schisa, e torni qui, torni al fallimento, perché è tutt’ nu falliment, tutta na’ cacata. Nessuno inganna il proprio fallimento. E nessuno se ne va veramente da questa città. Roma? Ma che cazz’ ci vai a far a stu’ Roma? Sol ‘e strunz vann a Roma.” (sempre Capuano).
Perché a Napoli ci sono tante cose da raccontare, dice Capuano, mostrando il mare all’aurora dalle fondamenta di Villa d’Abro a Posillipo: “ma è mai possibile che sta’ città nun te fa venire in mente nient’ a raccuntà? Insomma Schisa ‘a tien coccosa a dicer ‘o sì nu strunz comm’ tutto quant l’at?”
La cosa da raccontare per Fabietto non è la solitudine ma il senso di abbandono: “quando sono morti (i genitori) non me li hanno fatti vedere”.
L’incapacità di vedere ritorna in “Parthenope” dove solo con la maturità acquisita il regista riesce a fare il viaggio epico all’interno della città, privo di quel timore reverenziale della sua gioventù borghese.
A differenza però della tradizione classica in cui a compiere il viaggio fisico è un uomo (Ulisse) qui è una donna (Parthenope) che durante la giovinezza gira per Napoli ma non se ne allontana, compiendo allora più un viaggio mentale che reale lungo tutta la vita.
La scelta è dettata dall’idea secondo la quale le donne vivono con maggiore consapevolezza e dolore lo scorrere del tempo, per le decisioni sbagliate ad esempio (pensiamo all’aborto clandestino cui si sottopone Parthenope e al dolore che l’attraversa ogni volta che è in presenza di una donna in attesa).
Gli uomini, invece, secondo Sorrentino, affrontano la questione in maniera pratica poco profonda, come la tintura applicata dal Cardinale di Napoli Tesorone, prima di partecipare alle celebrazioni per il miracolo di San Gennaro.
L’arco di tempo narrato è ampio, quanto la vita di questa donna che vediamo dalla nascita, nel 1950, nelle acque antistanti Villa Lauro al momento in cui professoressa universitaria di Antropologia all’Università di Trento per 40 anni va in pensione e ritorna nel 2023 a Napoli.
In mezzo la difficoltà di diventare adulti, lei che ha sempre vissuto in una cornice naturale paradisiaca, come quella di Posillipo e di Capri, grazie anche al facoltoso padrino, per poi scoprire la Napoli affamata e malfamata dei vicoli (che nella realtà sono i carruggi di Genova), accompagnata per mano dal boss della zona, Roberto Criscuolo, osannato come un re, benefattore del suo popolo, tanto che risulta difficile stabilire il confine tra il bene e il male.
Degna di nota è la discesa dei panari blu cobalto illuminati come lanterne, installazione personalmente già vista realizzata in laboratorio dai ragazzi dell’Accademia di Belle Arti di Napoli.
Ed è un mondo quello di Parthenope in cui solo apparentemente è lei ad usare gli uomini, ammaliati dalla sua bellezza e giovinezza, ma in realtà lei è solo l’oggetto del desiderio passeggero di maschi di qualsiasi estrazione sociale e posizione – da Lauro, ad Agnelli, a Tesorone, a Criscuolo – capaci solo di possedere come esercizio del potere ma non di amare.
Emblematica la scena di sesso/violenza pubblica a cui la fa assistere il boss in una sala da biliardo nei quartieri di Napoli, per suggellare il sodalizio criminale tra due famiglie rivali, e degli sguardi rivolti da Parthenope alla ragazza violentata che sono di simpatia.
Sentimento che Sorrentino ha recuperato da Raffaele La Capria, quando diceva che è la capacità di essere coinvolti dalla sofferenza di un altro, il che richiede la conoscenza, che a differenza della compassione è priva del sentimento di carità tipico cristiano.
La conoscenza è della condizione altrui, partendo dalla propria e di aiuto ai fini della comprensione, è l’immaginazione, tant’é che la domanda ricorrente in tutto il film è “A cosa stai pensando?”, perché nessuno conosce veramente l’altro.
La simpatia per quanto simile è laica, non ha a che fare col sentimento religioso ma con un contagio morale, e il recupero di una morale laica deve necessariamente passare attraverso il dolore, che in questo caso è determinato dal suicidio di Raimondo, il fratello di Parthenope.
Uomo sensibile e fragile perdutamente ossessionato dalla sorella e a tal punto innamorato di lei da non riuscire ad amare nessun’altra donna, così “si lascia andare” decidendo di suicidarsi buttandosi dalle scogliere di Capri proprio la notte in cui Sandrino, figlio della cameriera di casa Lauro, capace di un amore puro e sincero, riesce ad avere un rapporto sessuale con Parthenope.
Quest’evento però conduce alla frattura insanabile tra la ragazza e i genitori, che la considerano colpevole del gesto estremo del fratello, e all’allontanamento fisico ed emotivo da Sandrino, l’unico che forse l’abbia veramente amata perché accettata per quello che era.
Il suicidio segna la fine della giovinezza, la perdita dell’illusione e della spensieratezza e l’ingresso nella vita adulta, che vede Parthenope tentare la strada del cinema e, non riuscendovi, termina gli studi e si laurea in Antropologia, con il Prof. Marotta, che “non la giudica e non vuole essere giudicato”.
Intraprende la carriera universitaria, diventando una brillante ricercatrice, che invece di rimanere solo un anno a Trento si ferma fino alla pensione perché incapace di affrontare il dolore che Napoli inevitabilmente le pone davanti.
Dolore che si avverte ancora di più davanti al sole accecante di questa città, ben rappresentato nella splendida fotografia della D’Antonio, che arriva come uno schiaffo in pieno volto allo spettatore perché stride con la sofferenza che non abbandonerà mai Parthenope.
È un sentimento che però si trasforma negli anni sia per intensità sia per le ragioni di fondo: se durante la gioventù era bruciante e dettato dal vuoto interiore, poi dettato dalla morte del fratello e dal senso di abbandono morale e umano per la mancanza di valori di riferimento, in età adulta diventa malinconica e poi dolce accettazione della vita, com’era stata per il Prof. Marotta con la malattia del figlio.
E solo con l’accettazione Parthenope ricomincia a vivere, prima il dolore l’aveva immobilizzata e si era autoisolata.
Ma vivere vuol attraversare fino in fondo la sofferenza per poi accettarla, come vivere significa amare e per farlo bisogna farsi conoscere e voler conoscere l’altro, diversamente il rischio è la solitudine e non vivere.
Il film non può essere apprezzato e compreso appieno se non si è letto “Ferito a morte” di Raffaele La Capria da cui Sorrentino attinge sia per la complessità del tessuto narrativo, nel quale troviamo una polifonia di voci e una varietà di punti di vista, sia per la tecnica narrativa in cui c’è un continuo andare avanti e indietro nella memoria, come se quanto raccontato fosse sempre presente.
Sia ancora per le tematiche trattate: la fugacità della giovinezza, rappresentata come una bella giornata di mare e di divertimento, che però contrasta con i tormenti dell’animo umano che ciascuno, Parthenope, Raimondo e Sandrino provano nel diventare adulti in un mondo che iniziano a conoscere solo uscendo dal guscio protettivo di Villa Lauro, e non tutti sono attrezzati alle storture del mondo reale.
Si ritrova nella pellicola ancora una volta l’amore di Sorrentino per Fellini, proponendo un realismo onirico, surreale, e non perché si allontani dalla realtà ma proprio perché comprendendola appieno, nel profondo, accentua le brutture dell’animo umano rese attraverso i tratti dei suoi personaggi che possono apparire caricaturali, invece sono facce e corpi espressivi che raccontano al primo sguardo tutta la loro essenza. E come Fellini Sorrentino dà un’importanza estrema alla luce e ai colori come mezzo di comunicazione diretto e immediato.
Unico neo, probabilmente voluto dal regista per evidenziare quanto sia acerba la donna, è la recitazione di Celeste Dalla Porta che evapora al confronto con la capacità e la forza espressiva di Stefania Sandrelli, che impersona Parthenope divenuta adulta, capace anche solo con le sue sospensioni di annullare pure la bellezza di Dalla Porta.
Mentre il film “È stata la mano di Dio” si chiude con il Napoli che vince il primo scudetto e Fabietto, divenuto ormai Fabio che parte da Napoli alla volta di Roma, Parthenope invece termina con la donna ormai matura che ritorna a vivere a Napoli e la squadra del cuore ha vinto il terzo scudetto.
Ma è diverso lo sguardo che rivolge l’uno e poi l’altra al conquistato titolo di Campioni d’Italia, perché mentre Fabio spenge la televisione sintonizzata sulla partita che ne ha decretato la vittoria, Parthenope vede arrivare la famosa nave dei tifosi partenopei, di felliniana memoria, che attraversa non a caso Via Partenope e l’accoglie con il dolce sorriso della Sandrelli.
Potremmo concludere con la frase con cui Levis Strauss – antropologo citato da Sorrentino – inizia “Tristi Tropici”, che rappresenta un monito a percorrere il viaggio (della vita) in maniera non banale e non superficiale: “Odio i viaggi e i viaggiatori ed ecco che mi accingo a raccontare il mio viaggio”.
Questo perché il film di Sorrentino, ancor più degli altri, si presta a una duplice chiave di lettura e, se accolta la superficiale, difficilmente piacerà perché non se ne coglieranno i molteplici riferimenti ed elementi simbolici da cui è pervaso; diversamente si avrà voglia di rivederlo per comprendere ancora più in profondità il suo senso, per poi cercare Sorrentino e chiedere di essere abbracciati come ha fatto il Prof. Marotta con Parthenope in uno dei cortile dei busti della Federico II.

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