“Sarabanda” di Ingmar Bergman inaugura il nuovo anno al Teatro Mercadante

Napoli. Il Teatro Mercadante ha alzato il sipario del 2025 con una proposta stimolante e di prestigio per l’autorialità del testo originario, la visione del direttore artistico e del regista e per i suoi interpreti: Renato Carpentieri in Johan, Alvia Reale in Marianne, Elia Schilton in Henrik e Caterina Tieghi nei panni di Karin.
Parliamo di “Sarabanda” di Ingmar Bergman, nella traduzione di Renato Zatti, per la regia di Roberto Andò, produzione del Teatro di Napoli – Teatro Nazionale, insieme al Teatro di Genova e al Teatro Biondo di Palermo.
Dal 7 fino al 19 gennaio è possibile assistere a questa rappresentazione, imperdibile sia per gli appassionati del teatro che per quelli del cinema.
È la trasposizione, infatti, del film per la televisione “Saraband” realizzato nel 2003 per la RAI dal maestro Ingmar Bergman, regista e sceneggiatore che lavorò in quell’occasione per la prima volta in digitale per dirigere quella che è stata – come da lui stesso dichiarato all’inizio delle riprese – l’ultima regia.
Non era semplice misurarsi e realizzare una versione teatrale, dove l’aggettivo semplice non si addice per definizione a nessuna delle opere del genio svedese.
E la difficoltà, soprattutto per “Sarabanda”, derivava da una realizzazione in cui il regista stesso profuse e richiese ai suoi collaboratori un impegno e una cura extraordinaria, cioè oltre l’ordinario che per gli standard esistenti era già superiore alla media.
Inoltre, per rendere la grande introspezione psicologica da cui la storia è permeata, adoperò soluzioni tecniche non riproducibili in teatro.
Lo storytelling si articola in 10 scene in cui le inquadrature giocano un ruolo fondamentale nel rendere il dramma personale di ciascuno dei quattro protagonisti, attraverso i sentimenti da cui sono animati e le loro differenti sfumature: l’amore, l’odio, l’incomprensione, l’incomunicabilità, il disprezzo, la speranza flebile e subito sopita.
Marianne, ex moglie di Johan, decide improvvisamente – dopo più di 30 anni – di andarlo a trovare e così lo raggiunge nella casa sperduta nei boschi dove vive isolato dal mondo.
Poco distanti, sul lago, abita il figlio di lui Henrik, vedovo di Anne, e la figlia Karin, cui è morbosamente legato.
Entrambi sono violoncellisti e questo amore per la musica è avvertito in maniera differente e proprio la preparazione di una sarabanda per un concerto diventa occasione di tensioni e incomprensioni mai risolte.
La storia si snoda, al pari della danza lenta e cadenzata, in un rapporto sempre a due sulla scena, in un continuo formarsi, rompersi e scambiarsi delle coppie caratterizzato dal perpetuo conflitto tra genitori e figli – che poi era quello vissuto dallo stesso Bergman – che genera amore e odio, tra indifferenza e attaccamento morboso, mentre il tempo scorre ineluttabilmente fino ad arrivare alla vecchiaia.
La pellicola del 2003 si apre con Marianne che, seduta a un tavolo, davanti a vecchie foto, parla guardando direttamente nella macchina da presa, con l’obiettivo di bucare lo schermo e consentire così allo spettatore di immergersi nella propria tragedia familiare.
In teatro Roberto D’Andò è ricorso a un sipario alla tedesca, che si alza cioè verticalmente con un movimento cosiddetto a ghigliottina, lasciando un’apertura di dimensioni variabili come se si trattasse di un campo di inquadratura cinematografica.
Optando così per un’apertura ristretta, al fine di rendere il primissimo piano con visibile solo il volto dell’attore, perché lo spettatore non venga distratto dall’ambiente circostante e si concentri sul dialogo che, per la maggior parte, è con l’Io del personaggio, fino a farsi pervadere da quel ragionamento o meglio dalle emozioni che da quello provengono.
Passando, invece, al primo piano o a un piano medio, offrendo la figura dell’attore a mezzo busto o a un piano americano per mostrare il movimento del corpo e la sua gestualità.
Molte sono le scene con inquadrature a campo medio in cui i personaggi sono per così dire incorniciati dall’insieme che li circonda, perché sia offerto a chi guarda una visione del tutto in cui si muovono, lasciando però sempre al centro dell’attenzione del pubblico l’azione, o meglio, lo stato d’animo.
E per metterlo ancora di più in risalto gli arredi sono ridotti al minimo indispensabile perché strumentali alla messa in scena (si pensi alla poltrona rossa su cui è seduto Johan o al letto su cui sono sdraiati Henrik e Karin, o al letto della camera degli ospiti in cui dorme Marianne, le due sedie e il tavolo intorno al quale si confrontano le due donne) oppure sono simbolici, come i violoncelli.
Di grande aiuto e impatto è il sapiente uso delle luci (scena e luci sono di Gianni Carluccio, datori di luci Theo Longuemare e Giuseppe Di Lorenzo) e la musica (di Pasquale Scialò), soprattutto nel momento in cui si passa ad utilizzare il sipario alla greca con apertura laterale per dividere il palco in due ambienti ed enfatizzare così l’impatto che ha il confronto/scontro tra due personaggi una volta che ciascuno rimane da solo.
Le soluzioni tecniche sopra descritte hanno sicuramente contribuito alla buona riuscita di questa transcodifica teatrale del film, ma a nulla sarebbero valse se gli attori non fossero stati capaci di trasmettere il proprio angoscioso immaginario attraverso un messaggio affidato non solo alle parole ma ai silenzi e ai gesti.
Tra tutti Renato Carpentieri che con la sua capacità mimetica e la ricerca profonda del personaggio, preceduta dalla comprensione piena di quello che intendeva l’autore, non impersona ma è Johan.
L’angoscia degli “ultimi giorni” si trasforma così in depressione dove le verità più crude e importanti non sono quelle affidate alle parole ma ai silenzi, che con Carpentieri non sono spazi vuoti ma carichi di una tensione emotiva generata poco prima della vibrazione della sua voce.
Alla fine i protagonisti hanno il coraggio di mettersi a nudo l’uno di fronte all’altro e dichiarare le proprie fragilità. Segue un gesto inaspettato di tenerezza tra Johan e Marianne nell’abbracciare un corpo segnato dal tempo, più per nostalgia però che per amore in sé.
Non c’é alcuna speranza allora per quest’uomo che non ha bisogno di nessuno e “non chiama mai nessuno”; quella di Marianne che “pensava che lui la stesse chiamando” era una mera illusione.
La presa di coscienza dello stato solitudine e di abbandono sfocia in depressione e in un urlo che ricorda quello di Munch.

Crediti foto: Lia Pasqualino.

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