Prato. Dal 14 al 19 gennaio il Palazzo Banci Buonamici di Prato ha ospitato la mostra fotografica “Discrepanze”, curata dalla Caritas Diocesana, con gli scatti di Ottavia Patrocchi.
La mostra, gratuita, si inserisce all’interno del progetto “Ne vale la pena”, che comprende attività di diversa natura, da un lato volte ad offrire una corretta informazione a chi ne sta “fuori”, dall’altro dirette a favorire un futuro oltre il carcere per chi, al contrario, lo vive da “dentro”.
Dal sostegno al lavoro, dunque, a stretto contatto con i detenuti della Casa Circondariale “La Dogaia” di Prato, al reinserimento in società di questi, alla sensibilizzazione dell’opinione pubblica al riguardo.
In quest’ultimo filone di intervento si inserisce la mostra, insieme al cineforum sulla giustizia riparativa e ad incontri, ugualmente aperti al pubblico, con ospiti diretti operatori, fautori vivaci della ricostruzione del legame tranciato tra il reo e la comunità.
Le foto esposte ritraggono il carcere pratese sotto diverse angolazioni: le recinzioni e le mura esterne, gli spazi “all’aperto”, dove i detenuti possono curare un lembo di terra o prendersi cura del pollame, le stanze più chiuse; non le celle, ma le lettere scritte di proprio pugno.
Nelle proiezioni allestite in sala, infatti, gli educatori svelano la difficoltà di ricordare, di aprirsi per raccontarsi, per la presa di coscienza di quel che è stato.
Il tempo scorre lento in carcere, e, come si legge, i momenti più duri del giorno sono la sera, prima di dormire, perché al chiudersi la cella risuona della solitudine che rappresenta; la mattina, perché aperti gli occhi ci si accorge che, rispetto alla sera prima, ancora non è cambiato niente.
La mostra non offre spunti per giudicare la gestione del carcere come “sistema” né come “Dogaia” pratese. Il fine non sembra quindi il perseguimento di un intento critico. Piuttosto, la mostra è un viaggio virtuale in quelle “segrete stanze”, in cui c’è chi mette a frutto il tempo, c’è chi lo vive con il senso di una fine.
“Amleto vuole morire”, scrive un detenuto su un compagno, che però non osa “lasciare” il carcere per paura che la punizione oltre la vita sia ben più atroce.
I detenuti non sono mai ritratti in volto; compaiono sporadicamente e solo di spalle. Le foto ritraggono perlopiù gli ambienti nei quali si muovono e i dettagli (manufatti costruiti con le loro mani, muri affrescati, oggetti di uso comune come un letto o una sedia) su cui focalizzano la loro attenzione. Il risultato è l’immedesimazione dell’osservatore con “l’abitante”, con cui le foto condividono un intimo punto di vista; si muove al suo posto per quei corridoi, occupa i banchi di scuola, confidando di ricominciare davvero e di poter remare lontano; si sofferma sullo sporco e il disordine accumulato in cella dopo uno sfogo di rabbia. La fotografia, si sa, più è grande e più sottrae all’obiettivo, per lasciare spazio all’immaginazione.
Credo che il non detto della mostra sia proprio il senso che tutti, anche coloro che si ritengono “assolti”, hanno trovato nell’attesa di scontare la propria pena.
Ci auguriamo che la mostra, testimonianza attendibile di una importante realtà del territorio, potrà essere fruibile anche in futuro, toccando sempre più persone.
Crediti foto: Ottavia Patrocchi