“Il fu Mattia Pascal”, al Teatro Mercadante Giordana e Gleijeses reinterpretano Pirandello

Napoli. Dal 28 gennaio al 2 febbraio al Teatro Mercadante “Il fu Mattia Pascal” dal romanzo di Luigi Pirandello nel felice adattamento a quattro mani di Marco Tullio Giordana – anche regista – e Geppy Gleijeses, nelle vesti del protagonista Mattia e nel suo doppio Adriano Meis.
A produrla “Dear Friends” – compagnia di prosa diretta proprio da Gleijeses – che si è impegnata in detta produzione, in collaborazione con il Teatro della Toscana – Teatro Nazionale, nell’obiettivo di continuare l’attività della precedente compagnia “Gitiesse” di cui ha raccolto l’eredità.
Sul palcoscenico insieme al noto artista napoletano, consacrato in vita da Eduardo De Filippo come suo erede, bel 11 attori: Nicola Di Pinto (in Paleari e in un giocatore), Roberta Lucca (in Romilda e in Pepita Pantogada), Giada Lorusso (in Adriana e in Cocotte), Totò Onnis (in Don Eligio), Ciro Capano (in Batta Malagna e in Papiano), Salvatore Esposito (in Pantagada), Teo Guarini (in Pomino e nel croupier), Davide Montalbano (in Scipione e nello svizzero), Francesca Iasi (in Oliva) e Marilù Prati (nella vedova del pescatore e in Silvia Caporale).
Non è la prima volta che Geppy si misura con un gigante della letteratura del ‘900 come Pirandello, ma mentre anni addietro aveva proposto un’opera già scritta per il teatro, come nel 1990/1991 “Liolà” e nel 2023/2024 il “Gioco delle parti”, ora ha alzato l’asticella ed ha proposto invece uno dei più famosi romanzi della storia della letteratura italiana e non solo.
Questo ha significato che, per portarlo in scena, lui e Giordana sono dovuti scendere nella profondità del testo originale, analizzarlo, comprenderne il sottotesto e proporre in un linguaggio, e soprattutto in un ritmo vicino al pubblico contemporaneo, dei concetti che sono estremamente attuali, senza però ridurlo a una storiella, ma salvaguardando da un lato l’umorismo pirandelliano e dall’altro affrontando i grandi quesiti filosofici che lo scrittore siciliano si è posto e che loro ora sottopongono al pubblico, anche materialmente, rivolgendosi direttamente a lui durante la recita.
Giordano e Gleijeses hanno prediletto un testo lineare, apparentemente semplice – il libretto edito da Manfredi è acquistabile nel foyer e contiene anche le belle fotografie di scena – perché poi la complessità dei ragionamenti è affidata alla maturità artistica del protagonista, trainante nei suoi interrogativi, e degli altri attori.
Egli rende bene la contraddizione profonda di Mattia Pascal, che è propria di tutti gli esseri umani di qualsivoglia epoca, sempre in bilico tra il desiderio di evasione e il bisogno di appartenenza.
Così Mattia decide di vivere al di fuori di se stesso come spettatore dell’altro sé e vedere come interagisce con gli altri, e sostanzialmente avere una visione della vita che scorre, rendendosi poi conto che il tentativo di allontanare il dolore è destinato a fallire perché questo vorrebbe dire rinunciare anche alle emozioni e ai sentimenti.
Il continuo flashback della storia è reso bene dai cambi di scenografia (questa e le luci sono di Gianni Carluccio), ottenuto attraverso la proiezione di immagini su teli di stoffa leggera mossi da una corrente d’aria a ogni cambio di ambientazione (i contributi video sono di Luca Condorelli – Vertov), ancora, dall’uso sapiente delle luci, soprattutto del buio ed è di grande aiuto l’utilizzo della musica (Andrea Rocca).
Suggestiva la proiezione sui pannelli di stoffa ad apertura di sipario, che ricorda molto i volumi antichi e meno, ammassati nella famosa Libreria “Acqua Alta” a Venezia a pochi passi da piazza San Marco, gestita da Luigi Frizzo che ha trasferito in quello spazio il caos del mondo di cui è stato spettatore, cambiando spesso mestiere, facendo i più disparati prima di diventare libraio.
Così come i concetti filosofici sono resi in maniera simbolica, mai didascalica a parte la famosa esclamazione iniziale “Maledetto sia Copernico” – espressione della perdita di quella certezza fondamentale che l’uomo sia al centro dell’universo.
È chiaro ma mai pesante il discorso intorno allo “strappo del cielo di carta” e al sentimento della vita per il signor Anselmo, paragonato a un lanternino che ciascuno ha dentro di sé come un faro per distinguere il bene dal male.
Grande è la cura nella fattura degli abiti, merito di Chiara Donato, che si può cogliere meglio proprio attraverso le fotografie di scena.
Da migliorare però l’acustica perché pare non si sia fatto ricorso ai microfoni e questo ha creato anche la sera precedente a quella in cui abbiamo assistito allo spettacolo qualche problema al pubblico nel cogliere perfettamente i dialoghi, perché è ovvio che muovendosi gli attori sul palcoscenico non sempre hanno la possibilità di dirigere la voce verso la platea che così, però, rischia di perdere qualche passaggio.

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