“Il viaggio di Victor”, un confronto crudo per esplorare il dramma di una coppia

Napoli. Dal 19 al 23 febbraio al Teatro Mercadante si può assistere a “Il viaggio di Victor” dell’attore, regista e drammaturgo francese Nicolas Bedos, per la prima volta rappresentato in Italia nella traduzione di Monica Capuani, realizzata ad hoc per questa produzione del Teatro Nazionale di Genova in collaborazione con il Teatro di Napoli – Teatro Nazionale.
La storia è ambientata a Parigi, precisamente nel Marais poco lontano dal museo Pompidou, ed è quella di un uomo, Victor (Antonio Zavatteri), che ha perso la memoria per un trauma seguito ad un incidente automobilistico nel quale è rimasto ucciso il figlio Antoine (Diego Cerami che si intravede solo in un’immagine animata proiettata sul finale. Video maker è di D-Work).
L’ex moglie Marion (Linda Gennari) si prende cura dell’uomo, nonostante siano separati da più di 10 anni e all’epoca lui le abbia sottratto la custodia del figlio allora minorenne e lei si sia ricostruita una vita con un nuovo compagno.
Marion lo aiuta a recuperare i ricordi: da quelli più semplici come i piatti preferiti e le abitudini quotidiane, alle relazioni sociali, amicali e questo contribuisce a far emergere a mano a mano la sua personalità di traditore, misogino, omofobo e i motivi della loro rottura, che ciascuno dei due non rinuncia a rinfacciare anche in maniera molto aspra.
Fino a quando lui avverte – più che ricordare – la certezza di essere stato solo una volta veramente innamorato di una donna e che questa donna è Marion, dalla quale sente di avere avuto un figlio, Antoine appunto, che prima di morire si era perso tra le droghe e l’incapacità di dare un senso alla propria vita.
Il dialogo tra i due è a volte incalzante, crudo, violento quasi a voler colpevolizzare l’altro delle proprie insoddisfazioni e fallimenti ma assolutamente reale e, a mano a mano che il confronto/scontro tra i due prosegue, c’è uno scavare all’interno di se stessi, quasi uno sprofondare reso ad apertura di sipario dall’immagine di lui – proiettata sullo specchio che costituisce da sfondo – che, sdraiato supino sul palcoscenico, muove braccia e gambe come di chi si agita mentre cade in un buco nero.
Contribuiscono a rendere il dolore questo e altri effetti ottici, le luci (di Aldo Mantovani), le immagini proiettate – molto belle quelle dei fori – e la musica (il disegno sonoro è di Edoardo Ambrosio).
Originale è la costruzione del racconto che si sviluppa come un noir: il pubblico inizialmente sa che qualcuno è morto in seguito a un incidente e che un uomo ha perso conoscenza.
A mano a mano scopre però che Marion non è l’infermiera che assiste Victor ma la sua ex moglie, e che il ragazzo morto è Antoine il loro figlio, anche se non si comprende fino in fondo se si sia trattato di un evento accidentale o cercato dal padre, stanco dei comportamenti distruttivi del ragazzo.
La costruzione riesce a mantenere viva l’attenzione del pubblico su un dramma piccolo borghese, che diversamente risulterebbe noioso, mentre il disvelare poco alla volta incuriosisce e aumenta il pathos, il cui punto più alto viene accompagnato dal rumore di specchi che si infrangono o dai tuoni accompagnati da lampi luminosi.
È evidente la regia di Davide Livermore che riesce a suscitare la riflessione e il confronto e a rendere tangibile, attraverso la scenografia da lui stesso disegnata insieme a Lorenzo Russo Rinaldi, l’incidente, la caduta, l’abisso, la quiete, ossia le differenti fasi del viaggio di Victor, che è attraverso il dolore e la sofferenza umana, il disagio e l’inadeguatezza esistenziale che si può manifestare in chiunque, anche in chi sembra apparentemente in equilibrio ma un evento, anche piccolo, è in grado di sconvolgerlo.
L’attenzione è tutta sul dialogo, tant’è che la scena è nuda fatta eccezione per due cubi sui quali i due si siedono o si alzano in piedi, il resto è tutto proiettato sia sul fondo che sul palco che utilizzano come letto o come spazio vuoto nel quale navigano.

Crediti foto: Federico Pitto.

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