Napoli. Lo scorso 6 aprile ha lasciato questa vita terrena il maestro Roberto De Simone, artista poliedrico: musicista, musicologo, compositore, antropologo, regista teatrale, drammaturgo e tanto altro ancora, ma amante soprattutto della gente comune e delle sue tradizioni popolari.
A noi piace ricordarlo per la sua capacità di analizzare lucidamente la realtà politica e culturale della città di Napoli che lui amava visceralmente definendola madre e, ancora, ricordarlo per la forza e il coraggio di dire sempre quello che pensava, risultando spesso una voce fuori dal coro.
Ultimo rappresentante di quella Scuola Musicale Napoletana del Conservatorio di “San Pietro a Majella” che frequentò a partire dal 1943 e per 12 anni fino al diploma, che annovera musicisti del calibro di Pergolesi, Vinci, Porpora, Leo, Cimarosa, Paesiello, Scarlatti fino a Martucci e Accardo.
De Simone raccontava come nella storia della musica della città di Napoli ci sia stato in passato un cambiamento, al quale lui e altri musicisti – giovani allora – avevano contribuito, rendendo possibile una trasformazione grazie al loro spirito critico nei confronti del potere e di forme di assolutismo dominante, liberando così la città da una cultura retrograda che pesantemente l’affliggeva.
Faceva riferimento all’esperienza vissuta con la Nuova Compagnia di Canto Popolare, incontrata dopo essersi diplomato quando aveva iniziato a riflettere su quale fosse il ruolo del musicista e dell’artista in genere nella sua città, e quale fosse il rapporto con il pubblico.
Fu quello il momento in cui si avvicinò al canto popolare, a quella Compagnia di cui faceva parte tra gli altri Eugenio Bennato e a cui si unì Beppe Barra.
De Simone consigliò loro di non riproporre brani desunti sic et sempliciter dal popolo ma brani attivati sulla documentazione storica, rivisitata con uno stile orale, privilegiando quelli eseguiti duranti i rituali, ossia le feste, consapevoli che quel contesto non potesse essere riprodotto a teatro.
Esaurita l’esperienza con la Nuova Compagnia di Canto Popolare perché non c’erano più documenti storici dai quali attingere, si dedicò al teatro dando vita a opere come “La Gatta Cenerentola”, da lui stesso definita la favola delle favole perché è la somma di tutto il mondo fantastico e onirico dell’immaginario del mondo meridionale e anche di quello del Mediterraneo, le cui storie si articolano sulle diverse varianti esistenti di Cenerentola, con i punti fissi della matrigna, delle sorellastre, del ballo a corte quali archetipi però magico-religiosi, non semplicemente fiabeschi, e dove i gesti che accompagnano le cantilene musicali sono rituali.
L’obiettivo era di visualizzare l’immaginario collettivo non con elementi realistici ma mettendolo in atto attraverso il racconto, cioè non mostrando ma raccontando, attivando così l’immaginario del pubblico perché considerava questa la vera tradizione.
La ripetizione creava un passaggio del corpo e dell’anima che contribuiva a creare uno stato di trance.
E quando poi qualche anno fa gli è stato chiesto cosa ne pensasse del “Rinascimento napoletano”, egli disse che era solo di facciata, nella realtà c’era stata un’inversione di tendenza con un ritorno a un degrado a Napoli molto più accentuato di quello nazionale, perché era un luogo in cui si era persa l’anima, ovvero aveva perduto quell’autenticità che Pier Pasolini aveva individuato solo nel popolo napoletano.
Napoli – diceva – era una città con una civiltà sì millenaria ma con una cultura tramontata a partire dalla lingua napoletana, molto modificata quella parlata dalla classe borghese, un “dialetto eduardiano cioè addomesticato.”
De Simone pur stimando il drammaturgo De Filippo lo considerava responsabile della fine dell’antico teatro napoletano, perché gli attori – come Ugo D’Alessio, Agostino Salvietti, Luisella Viviani, avevano un altro stile di recitazione, più autentico.
Per lui De Filippo aveva segnato l’appiattimento dei linguaggi tradizionali che erano gestuali e mimici come potevano essere quelli di Totò, che pur provenendo dal teatro di verità e non dalla commedia era sicuramente più autentico di un De Filippo puramente testuale.
Parlava di “appiattimento defilippiano” perché era l’unico esponente di un teatro napoletano passato alla medianicità, mentre il precedente – quello di Viviani, di Totò, dello stesso nonno paterno Roberto Mario De Simone – era stato cancellato dall’avvento di De Filippo, che aveva privilegiato i contenuti sociali del teatro.
Ma non sono i contenuti, per De Simone, a fare il teatro ma l’oralità, la forza rappresentativa degli attori e non la qualità dei testi che possono essere validi solo dal punto di vista letterario-poetico.
Eduardo, a suo dire, si era inserito nella letterarietà bandendo il vero teatro napoletano che era musica, fonemi e gesti.
Tanto era importante per De Simone il gesto popolare che condusse un’osservazione sulla gestualità nella comunità napoletana partendo da un testo di De Iorio che aveva catalogato, agli inizi dell’’800, tantissimi gesti di tipo non rituale ma indicativo e sostitutivo, raccogliendoli in un volume.
Poi con Beppe Barra verificò, in una scuola elementare sui Quartieri Spagnoli di Napoli, quanti di questi gesti fossero ancora vivi, attraverso la recitazione di una favola di Pulcinella rielaborata con accompagnamento da gesti che sostituivano molte parole o concetti.
Verificò come questi gesti venissero riconosciuti dalla comunità dei bambini al 100%, a distanza di circa due secoli dalla loro nascita.
Ci piace concludere il monito – sempre attuale – di De Simone del 2013 quando disse in un’intervista che lo Stato non lavora per la cultura, interessato com’è solo ai numeri, non al valore e al merito, mentre lui avrebbe voluto dei giovani ribelli in rivolta contro uno Stato con non propone ma predispone.
Crediti foto: Pagina facebook “Vincenzo De Luca”