Milano. Domenica 16 giugno protagonista della Stagione dei Recital di canto è il basso di origini austriache Günther Groissböck, che il pubblico del Teatro alla Scala ha applaudito in diverse occasioni: è stato Sarastro nella Zauberflöte di Mozart nel 2011 (direttore Roland Böer, regia di William Kentridge), Barone Ochs nel Rosenkavalier di Strauss nel 2016 (direttore Zubin Mehta, regia di Harry Kupfter) e Kaspar nel Freischütz di Weber nel 2017 (direttore Myung-Whun Chung, regia di Matthias Hartmann).
Accompagnato al pianforte da Gerold Huber, Groissböck proporrà grandi romanze da camera del repertorio tedesco e russo, in un percorso suggestivo ed emozionante che espone un’ampia palette di sentimenti intensi e contrastanti: i Vier ernste Gesänge di Brahms, quattro canti sacri su passi della Bibbia luterana; il Liederkreis op. 39 di Schumann, ciclo di dodici Lieder su testi di Eichendorff; cinque liriche da camera di Čajkovskij su testi di Aleksej Tolstoj e sei romanze di Rachmaninov.
Günther Groissböck ha studiato con Robert Holl e poi con José van Dam all’Universität für Musik und Darstellende Kunst di Vienna. È ospite abituale dei maggiori teatri d’opera, quali il Metropolitan di New York, l’Opéra di Parigi, la Bayerische Staatsoper di Monaco, la Staatsoper di Vienna, la Deutsche Oper e la Staatsoper unter den Linden di Berlino, il Teatro Real di Madrid, il Liceu di Barcellona, come pure dei Festival di Salisburgo e di Bayreuth. Il suo repertorio comprende i grandi ruoli wagneriani di König Marke (Tristan und Isolde), König Heinrich (Lohengrin), Fasolt e Fafner (Der Rheingold), Hunding (Die Walküre), Hermann (Tannhäuser), Veit Pogner (Die Meistersinger von Nürnberg), Daland (Der fliegende Holländer) e Gurnemanz (Parsifal), ma anche Sarastro (Die Zauberflöte), Boris Godunov (ruolo eponimo), Banco (Macbeth), Caspar (Der Freischütz), Vodník (Rusalka di Dvorak), Colline (La bohème), Gremin (Onegin), Kecal (La sposa venduta) e Rocco (Fidelio). Ha ottenuto grande successo la sua interpretazione del Barone Ochs nel Rosenkavalier, ruolo con il quale ha debuttato a Salisburgo e che ha poi portato alla Scala e al Metropolitan.
Molto richiesto anche in concerto, si è esibito in sedi prestigiose come l’Accademia di Santa Cecilia a Roma, il Concertgebouw di Amsterdam, il Gewandhaus di Lipsia, la Filarmonica di Berlino e quella di Monaco, il Musikverein e il Konzerthaus di Vienna, la Carnegie Hall a New York e la Boston Symphony Hall, con direttori del calibro di Philippe Jordan, James Levine, Yannick Nézet-Séguin, Zubin Mehta, John Eliot Gardiner, Antonio Pappano, Kirill Petrenko e Andris Nelsons.
Recentemente ha inciso un cd dedicato a Schubert (Winterreise e Schwanengesang) e un altro con Lieder di Brahms, Wagner, Wolf, Mahler.
Tra i suoi prossimi impegni, il ritorno a Bayreuth per Parsifal e Die Meistersinger von Nürnberg. Debutterà nei panni di Fiesco nel Simon Boccanegra alla Staatsoper di Vienna e in quelli di Filippo II in una nuova produzione del Don Carlo al Metropolitan; inoltre nel 2020 sarà per la prima volta Wotan nella nuova produzione del Ring al Festival di Bayreuth e canterà nel Tristan und Isolde in forma di concerto a Washington con la National Symphony Orchestra nonché a Boston e a New York con la Boston Symphony Orchestra.
La statura di un artista non si misura solo dai suoi capolavori, ma anche dalla capacità di riconoscere il talento dei giovani colleghi contribuendo a farlo sbocciare. In questo senso Schumann e Čajkovskij sono stati due grandi, perché si adoperarono in modi diversi per lanciare le carriere di Brahms e di Rachmaninov.
Schumann conobbe Brahms nel 1853, restando soggiogato dalle sue doti, tanto da indicarlo come il compositore del futuro in un articolo apparso nella “Neue Zeitschrift für Musik”. I due musicisti avevano molti interessi in comune e amavano la stessa donna, Clara, ma non furono mai rivali: dopo la morte del maestro nel 1856, l’infatuazione di Brahms per la vedova Schumann si trasformò gradualmente in un’amicizia profonda e tenace; Clara, infatti, fu l’unica persona con la quale il compositore non litigò mai. Nel 1896, quando ormai molti amici erano scomparsi, l’amica del cuore era malata e lui stesso soffriva per un tumore, Brahms compose i Vier ernste Gesänge, una pacata meditazione sulla morte. I versi delle liriche provengono dalla Bibbia luterana, un testo che il compositore conosceva e amava pur dichiarandosi ateo; la contraddizione è solo apparente, poiché i passi scelti tracciano un percorso dal dolore all’accettazione della morte in cui Dio è assente. Il primo Lied si apre in modo luttuoso, con il pianoforte che anticipa e ripete ostinatamente l’incipit della linea vocale; la fissità della parte pianistica, tutta sul grave, evoca l’ineluttabilità del destino umano. Ich wandte mich è il pezzo più elegiaco; come nelle altre liriche, anche qui lo stile vocale tende al declamato, solenne come il discorso di un profeta biblico. O Tod, o Tod segna il punto di svolta; la strofa iniziale, come i primi due Lieder, è in minore ed esprime una profonda amarezza, la seconda strofa, invece, è in maggiore ed è rischiarata da una pace celeste. Il forte contrasto fra le due parti è evidente persino nell’intonazione delle parole “O Tod”, sulle stesse note, ma in modo speculare: la prima volta con un intervallo discendente (si-sol), l’ultima con un intervallo ascendente (sol-si). Anche il Lied conclusivo è in maggiore; inizia come un inno gioioso alla carità, a cui le note puntate conferiscono una leggera patina marziale, ma a partire dall’Adagio si trasfigura: l’accompagnamento, in terzine, sembra tremare di emozione di fronte alla dolcezza del canto.
Così come i Vier ernste Gesänge sono una sorta di requiem per Clara, scomparsa appena due settimane dopo il loro completamento, il Liederkreis op. 39 è uno dei regali di nozze che Schumann volle donarle. Questo ciclo di dodici Lieder su testi di Eichendorff fu composto nel 1840, il cosiddetto anno dei Lieder, perché in quei mesi il musicista ne scrisse quasi duecento, la maggior parte di ineffabile bellezza. Liederkreis sembra descrivere il viaggio capriccioso di un viandante, che si dipana tra sentieri silvani e sentieri interiori: ogni lirica è una tappa indipendente, ma sottilmente legata a quella successiva. Per esempio, i due Lieder che aprono la raccolta sono collegati per opposizione: nel primo la voce è accompagnata da arpeggi ondeggianti in legato, nel secondo da accordi staccati in sincope. Più avanti, il dolce Die Stille anticipa le atmosfere oniriche di Mondnacht, la gemma più fulgida dell’op. 39; qui il canto si orna di brevi melismi, mentre il ritornello strumentale descrive una morbida discesa, come un raggio di luna che collega il cielo alla terra. Alcune immagini sonore tornano da un pezzo all’altro: il richiamo del corno squilla in Waldesgespräch e si ripresenta, con sordina, in Im Walde; il mormorio del bosco carezza il canto in In der Fremde, mentre instilla il sospetto in Zwielicht. Come in altri pezzi, anche qui Schumann rinuncia alla pittura sonora, preferendo ricreare un’atmosfera suggestiva, in questo caso di mistero, che ottiene attraverso una scrittura contrappuntistica memore delle Invenzioni a tre voci di Bach.
Una protagonista del ciclo è la notte, celebrata nel Lied conclusivo con una linea vocale che prova a trattenere lo slancio attraverso improvvisi rallentando e un accompagnamento di accordi ribattuti in semicrome, che evoca il tremolio rutilante delle stelle.
Schumann fu, insieme a Mozart, il compositore occidentale da cui Čajkovskij imparò di più, soprattutto per quanto riguarda le liriche da camera. Per esempio, Net, tol’ko tot, kto znal, del 1869, è molto vicina al mondo poetico schumanniano sia per la scelta del testo ‒ una delle canzoni di Mignon dal Wilhelm Meister di Goethe ‒ sia per lo stile musicale; nella romanza il pianoforte e la voce tornano ossessivamente sulla medesima formula melodica, che propongono in alternanza, mentre nel testo si ripete in modo assillante il verbo stradat’ (soffrire). Anche Primiren’e, del 1875, è colma di mestizia: il desiderio di quiete, reso da un regolare accompagnamento in 4/4, si scontra con il dolore irreprimibile, espresso da una malinconica linea vocale in 12/8. Alla stessa raccolta di Net, tol’ko tot, kto znal appartiene Sleza drožit, romanza filosofica in cui l’armonia instabile, oscillante fra il maggiore e il minore, traduce un’idea sfuggente di amore, in bilico fra sentimento terreno e divino. Come in molte altre occasioni, qui Čajkovskij scelse i versi di Aleksej Tolstoj, cugino del celebre romanziere, perché erano buoni ma non eccellenti, e in quanto tali adatti alle esigenze pratiche della musica, che impone tagli o ripetizioni. Nadežda von Meck, mecenate del musicista, condivideva questa idea e nel 1878 indicò al suo protetto quattro poesie di Tolstoj affinché le musicasse nella sua successiva raccolta, l’op. 38. Fra queste Sred’ šumnogo bala, divenuta presto famosissima e tuttora molto amata, ha l’andamento di un valzer lento e carezzevole, per evocare l’immagine di una bella sconosciuta intravista nella folla. Ancora di Tolstoj, ma di gusto spagnoleggiante, è Serenada Don-Žuana, quadretto pittoresco in cui l’impenitente seduttore intona una canzone brillante mentre impugna una chitarra andalusa, argutamente imitata dal pianoforte con acciaccature e arpeggi.
L’anno delle Sei romanze op. 38, Čajkovskij diede le dimissioni dal Conservatorio di Mosca per dedicarsi alla composizione, ma continuò a collaborare con l’istituzione quale membro di numerose commissioni; in questo ruolo conobbe Rachmaninov e valutò nel 1892 la sua prova di diploma, l’opera Aleko. Il maestro ne divenne un entusiasta sostenitore e cercò di dare una spinta alla carriera del giovane. Rachmaninov, rassicurato dal sostegno di uno dei musicisti che più ammirava, nei mesi successivi alla fine degli studi compose alcuni dei suoi pezzi più belli, come il Preludio in do diesis minore e le romanze dell’op. 4. Tra queste, V molčan’i noči tajnoj esprime la violenta nostalgia per un amore perduto attraverso linee melodiche discendenti e intensi cambiamenti dinamici; in Ne poj, krasavica!, su testo di Puškin, la malinconia si ammanta d’Oriente con suadenti arabeschi vocali, anticipati e ripresi dal pianoforte. Vsë otnjal u menja è una composizione matura, del 1906, breve quanto drammatica: all’inizio la voce lancia in forte un’invettiva disperata, ma poi una delicata scala alla tastiera acquieta quello slancio, il ritmo diventa più lento e la linea vocale si appiattisce, palesando la rassegnazione raggiunta. Son, del 1893, è altrettanto stringata; in questa evocazione del passato, il canto s’interrompe a ogni frase, quasi a trattenere un sospiro, mentre il pianoforte sospende l’accompagnamento in terzine nell’intervallo tra le due strofe e nella coda per riproporre la melodia vocale, sciogliendola in una leggera voluta di note che sale verso l’acuto. Al giovanile op. 4 appartiene O, net, molju, ne uchodi, che esprime la voluttà del tormento amoroso con una musica molto agitata, mentre Otryvok iz A. Mjusset è una delle Dodici romanze op. 21 del 1902: si tratta di una brevissima scena teatrale, un monologo febbrile contraddistinto da forti contrasti sonori.