Modena. La stagione 2019/2020 di ERT al Teatro Storchi di Modena si apre con “Nel tempo degli dei. Il calzolaio di Ulisse” in scena da giovedì 10 a domenica 13 ottobre.
Il nuovo spettacolo di Marco Paolini è un confronto con l’Odissea, un canto antico tremila anni, passato di bocca in bocca e di anima e di anima, che ha segnato la storia dell’Occidente.
Nel tempo degli dei, prima regia con il Piccolo Teatro di Milano, segna un punto d’arrivo nella ricerca di Paolini sull’Ulisse iniziata nel 2003, quando nel sito archeologico di Carsulae con le improvvisazioni musicali di Giorgio Gaslini e Uri Caine mise in scena il primo racconto dal titolo U.
“Con quanti, ma soprattutto con quali dei ha a che fare un uomo oggi?” si domanda Marco Paolini che prosegue: “non penso ovviamente alle solide convinzioni di un credente, ma al ragionevole dubbio di chi guardando al tempo in cui vive, pensa con stupore e disincanto alle possibilità di accelerazione proposte alla razza umana. Possibilità di lunga vita, possibilità di potenziamento mentale e fisico, possibilità di resistenza alle malattie, eccetera… Restare umani sembra uno slogan troppo semplice e riduttivo, troppo nostalgico e rassicurante quando diventare semi-dei appare un traguardo possibile, almeno per la parte benestante del pianeta. Ulisse per me è qualcuno che di dei se ne intende e davanti alle sirene dell’immortalità sa trovare le ragioni per esistere”.
Ex guerriero ed eroe, ex aedo, l’Ulisse di Paolini si è ridotto a calzolaio viandante, che da 10 anni cammina senza meta, secondo la profezia che il fantasma di Tiresia, l’indovino cieco, gli fa nel suo viaggio nell’al di là, narrato nel X canto. Questo Ulisse pellegrino e invecchiato non ama svelare la propria identità e tesse parole al limite della realtà che diventano mito.
“Per anni lui, per me – commenta Francesco Niccolini – è stato l’uomo che pensa a testa bassa e poi trova le parole giuste: l’uomo del cavallo di Troia e della gara con l’arco, quello delle Sirene, Polifemo, Scilla, Cariddi. Poi, all’improvviso, è diventato l’uomo triste che piange sullo scoglio più isolato di isole da sogno, dove donne innamorate di lui gli hanno promesso l’immortalità e molto altro, pur di trattenerlo: ma la nostalgia di casa, la nostalgia della moglie e del figlio erano sempre più forti di ogni tentazione. Strano atteggiamento per un uomo che il mito ci ha consegnato come il simbolo di chi vuole superare ogni confine senza paura […]. Ma il nostro Ulisse ha smesso di assomigliare a qualunque antico e luminoso eroe: sporco di interiora e sangue, infangato, maleodorante, invecchiato, rugoso e sdrucito, in esilio per altri dieci anni in compagnia solo di un vecchio e inutile remo, abbiamo scoperto non l’ex guerriero, l’ex eroe, di sicuro il reduce del campo di battaglia ma soprattutto un uomo, che – per l’ennesima volta da solo e contro gli dei capricciosi e ostili anche quando sembra che stiano al tuo fianco – cerca di placare demoni vecchi e nuovi, che lo hanno accompagnato lungo trent’anni di guerre, naufragi e inattesi incontri. E tutto questo, con una sola spiegazione possibile, che ci viene dal personaggio che più amo in tutto il poema (e che solo apparentemente è rimasto fuori dal nostro spettacolo), Alcinoo, il re mago, che tutta questa fatica e il dolore riesce a spiegare con le parole più semplici e belle: perché i posteri avessero il canto”.
“Le nozze di Cadmo e Armonia, il libro di Roberto Calasso, porta in epigrafe una frase di Sallustio: queste storie non avvennero mai, ma sono sempre. – commenta Gabriele Vacis che firma la regia dello spettacolo – Quel bellissimo libro di Calasso raccontava il rapporto tra gli dei e gli uomini. Gli dei, nella Grecia classica, erano personaggi della vita quotidiana. Con tutti i pregi e i difetti degli umani. Non è facile, per noi moderni, comprendere questa consuetudine con le divinità. […] E noi? Adesso? Oggi dove sono gli dei? Dov’è Dio? La risposta esatta che si doveva dare al catechismo non contraddice quello che voglio dirvi: dov’è Dio? In cielo, in terra e in ogni luogo. Quando Paolini ha cominciato a parlarmi di questo spettacolo mi ha chiesto di leggere Homo deus di Yuval Noah Harari. Lì si trova una risposta che non contraddice quella del catechismo: adesso gli dei siamo noi. Siamo noi occidentali ricchi che facciamo i temporali e abitiamo in chiese preziosissime: New York, Parigi, ma anche Dubai o Seul… Siamo noi che, discrezionalmente, senza bisogno di motivi razionali, decidiamo dove devono stare gli umani e come devono starci. Il libro di Calasso è importante perché racconta l’ultima volta in cui gli umani e gli dei si sono seduti, insieme, allo stesso banchetto. Poi sono cominciati i muri. Da una parte gli dei, dall’altra gli uomini. E in mezzo c’è Ulisse, un uomo che ha un rapporto privilegiato con gli dei grazie alla sua intelligenza, alla sua arguzia. L’Ulisse che vorremmo raccontare è quello che ha già vissuto tutte le sue peripezie, è un vecchio di oggi: ancora molto in gamba, consapevole ma senza futili illusioni. È un saggio confuso e disorientato che ha bisogno di continuare a comprendere, nonostante tutto. È un Ulisse che, finalmente, prova ad ascoltare sua moglie, suo figlio, che prova a comprendere persino gli dei capricciosi che si sono giocati il suo destino. Per questo, in scena, Marco non sarà solo. Sartre diceva che l’inferno sono gli altri. Questo anziano Ulisse ha bisogno di comprendere quell’inferno che sono gli altri”.