Verona. La tragedia giapponese di Puccini, intima e appassionata, è titolo anche areniano (l’ultima produzione è quella realizzata nel 2004 da Franco Zeffirelli e successivamente ripresa in 4 successive edizioni del Festival lirico) ma sul palcoscenico del Filarmonico è comparsa di rado: solo nel 1982 e nel 1991 il pubblico veronese ha potuto apprezzare in uno spazio raccolto la vicenda della fragile eppur coraggiosa Cio-Cio San, e in entrambi i casi con cast di assoluto rilievo (tra i nomi impegnati vale la pena citare Raina Kabaiwanska, Mietta Sighele, Veriano Luchetti, Mario Malagnini). Dopo diciotto anni dall’ultimo allestimento, Fondazione Arena ha prodotto questo nuovo spettacolo insieme alla Hrvatsko Narodno Kazalište di Zagabria che va in scena domenica 15 dicembre, con cui fanno il loro esordio veronese il regista Andrea Cigni e il team creativo composto da Dario Gessati (scenografo) e Valeria Donata Bettella (costumista), insieme all’areniano Paolo Mazzon alle luci.
La produzione, come ha dichiarato lo stesso regista, “nasce da un’attenta riflessione sia sul significato di geisha (dal considerarla una figura attuale all’interrogarsi sulla sua funzione odierna), sia sulla storia raccontata, valutandone bene gli elementi narrativi (proposti in chiave contemporanea) affinché si possano cogliere le affinità della vicenda col mondo moderno, senza però tradire quegli usi e costumi tradizionali che fanno ancora parte della civiltà nipponica”. Si tratta quindi di un accurato lavoro di ricerca e di confronto che ha preso in esame anche un altro elemento fondante la cultura giapponese: il concetto di Ikigai, sintetizzabile nella passione che anima la vita e le scelte di ogni individuo. Per approfondire la dimensione narrativa dell’opera così intima e legata al concetto di solitudine, Cigni sceglie di ambientare la vicenda in un bosco poiché “nella cultura nipponica il contatto con la natura (tramite case isolate, costruite al centro di piccoli laghi, in cima a colline remote o nascoste tra i boschi) e la presenza della natura stessa sono un ottimo “contenitore” di vicende personali e di complesse situazioni affettive o sociali. Credo che ambientare “Madama Butterfly” in una foresta giapponese restituisca appieno queste sensazioni. Nella regia si lavora sull’evocazione, sulle sensazioni e sugli stati d’animo, dunque anche cercare l’atmosfera giusta per lo svolgimento di un’azione diventa un lavoro delicato e prezioso”.
La vicenda di “Madama Butterfly” è nota: la quindicenne Cio-Cio San viene presa in moglie, acquistata insieme alla casa giapponese, dal marinaio F.B. Pinkerton, il quale ripartirà presto per gli Stati Uniti per ritornare “Un bel dì” dalla sua “tenue farfalla” solo tre anni dopo, con un colpo fatale per la speranza di lei. Il tragico epilogo nulla toglie al fascino del lungo duetto d’amore che conclude l’atto primo, per molti critici il più bello di tutta la produzione pucciniana. Il compositore conobbe il soggetto dal nuovissimo lavoro teatrale di David Belasco, ispirato a sua volta dal racconto di J. L. Long, mentre si trovava a Londra per la prima inglese di “Tosca”, e subito conquistato si mise al lavoro coi fedeli Giacosa e Illica: la “Butterfly” vide la luce nel 1904 alla Scala di Milano (tra gli interpreti vi erano Rosina Storchio e il tenore Zenatello, che avrebbe fondato il Festival areniano nove anni dopo). Alla prima però l’opera non piacque (più per rivalità con l’autore che per l’effettivo valore della composizione) e Puccini si rimise al lavoro per far rinascere la storia di Cio-Cio San al Teatro Grande di Brescia, pochi mesi dopo. Il grande musicista lucchese, perfezionista come pochissimi altri nella storia dell’opera lirica, ritoccò la partitura in altre quattro occasioni fino al 1920 ma in sostanza l’opera che si conosce oggi è quella che trionfò a Brescia, grazie anche alle minuziose ricerche del genio lucchese sul Giappone e sulla cura della realizzazione scenica, per cui lasciò ampi e dettagliati scritti.
Il Coro, preparato da Vito Lombardi, insieme all’Orchestra della Fondazione Arena, è guidato dal maestro Francesco Ommassini, più volte apprezzato sul podio dei complessi artistici veronesi.