Roma. È tornato al Teatro India, luogo da cui era partito, “L’Abisso”, uno spettacolo già definito da molti urgente, necessario, profondo, attuale, di e con Davide Enia, attore, drammaturgo e regista palermitano.
Enia fa teatro di narrazione; gli attori-autori si presentano con la propria identità, senza l’ausilio di una maschera o di un personaggio, per raccontare storie. Tali narrazioni, spesso, sfociano nel teatro civile toccando la politica, la società, l’oggi e, come nello spettacolo in questione, la nostra attualità più straziante.
Tratto dal suo libro “Appunti per un naufragio”, a cui è stato conferito il Premio Mondello 2018, Enia si fa cantore di Lampedusa e di ciò che quest’isola rappresenta da oltre 20 anni per l’Italia, per l’Europa e per l’Umanità. Proprio in questi giorni, invece, “L’Abisso” ha ottenuto il Premio Ubu 2019 per “il migliore nuovo testo italiano o scrittura drammaturgica”.
Lampedusa qui non è la splendida isola dell’arcipelago delle Pelagie ma è una delle principali mete delle rotte dei migranti africani nel Mediterraneo: il territorio più meridionale d’Italia è il ponte tra Europa e Nordafrica, come evoca anche Mimmo Paladino in Porta d’Europa, dedicata a tutte le persone morte e disperse in mare.
“L’Abisso” è, dunque, quello del Mediterraneo, quel mare nostrum scenario di naufragi che tanti corpi ha ingoiato, ma è anche quello personale e intimo dell’autore-interprete, là dove la tragedia collettiva incontra il dramma personale.
Come diceva Nietzesche, “se scruterai a lungo in un abisso, anche l’abisso scruterà dentro di te”: Enia ha avuto il coraggio di farlo, riportando in modo schietto, senza retorica, la pura e insopportabile realtà degli sbarchi, degli annegamenti, di chi approda da morto sulla terra, filtrandola attraverso la sua esperienza personale, dopo anni trascorsi sull’isola a raccogliere testimonianze dirette.
L’attore entra in scena in uno spazio scarno, con una luce radente, ma subito si stabilisce una tensione tra lui e il pubblico e inizia il racconto, accompagnato dai suoni di Giulio Barocchieri che si fondono perfettamente con le parole, in un accurato lavoro tra attore e musicista.
È il racconto di chi decide, dopo vari soggiorni a Lampedusa, di prendere parte a uno sbarco di migranti, ritrovandosi a vivere con tutta la persona l’evento inevitabile e spaventoso.
Accompagnato sull’isola dal padre “muto” che finalmente trova uno scambio col figlio, con uno zio malato sul continente, con una madre che dispensa arance e con gli amici, esperti di sbarchi, che lo inducono a quell’esperienza inimmaginabile, Enia mescola il suo privato con una realtà atroce che ci riporta a frammenti perché troppo smisurata.
“Io non sono di sinistra, anzi, tutt’altro, proprio l’opposto”, dice il sommozzatore, ignaro del perché sia finito a fare quel mestiere, e aggiunge: “In mare ogni vita è sacra. Se qualcuno ha bisogno di aiuto, noi lo salviamo. Non ci sono colori, etnie, religioni. È la legge del mare”.
Ci sono, poi, i pescatori che in mezzo ai pesci trovano i cadaveri da denunciare alle autorità e che, pur bloccati nel loro lavoro dalla burocrazia, conservano la pietà, racchiusa in quel segno della croce che si fanno ogni volta che tirano su le reti.
C’è, quindi, una legge del mare che impone di salvare chi ha bisogno di aiuto ma c’è anche una legge della terra che implora di seppellire i morti.
Così Vincenzo, che cura il cimitero di Lampedusa, si riempie il naso di menta per recuperare i cadaveri in decomposizione da un barcone: nessuno riesce ad avvicinarsi, tanto è il fetore, ma lui è determinato a dare sepoltura e restituire dignità a quei corpi.
Undici ragazzi vicini, come una squadra di calcio, una ragazza in disparte con un oleandro a darle la protezione che non ha avuto in vita: Vincenzo ha lavato, sistemato, seppellito e ha dato una croce ai cadaveri, perché è così che si fa con i morti.
C’è, ancora, la fatica di chi trae in salvo le persone, decidendo in pochi secondi chi tirare su e chi no in un mare dalle onde gigantesche che non perdona una mossa sbagliata; ci sono l’acqua e il sale che deformano i cadaveri, i segni di atroci violenze sugli uomini e sulle donne, a cui accadono cose che “nemmeno agli animali”. Si sentono il vento, il freddo, che uccide a sua volta, lo sfinimento, i nomi urlati da chi sta per essere ingoiato dalle acque, il dolore di famiglie distrutte: sembra di essere in un film dell’orrore che è, purtroppo, quello che si ripete sull’isola da tantissimi anni.
Sono testimonianze importantissime di persone che, di fronte alle sofferenze più atroci, come in uno stato di shock, fanno ciò che va fatto ed Enia ci racconta, insieme ad esse, tutto il suo disagio, il suo naufragio personale, il suo incepparsi di fronte a fatti che stentiamo a riconoscere come umani.
In scena è forte e potente, i suoi movimenti sono misurati, i gesti netti e precisi, le parole si alternano ai silenzi, ai respiri: da vero maestro della parola, è riuscito a tradurre le atrocità, il dolore più profondo, il senso di smarrimento, utilizzando il suo dialetto, evocando litanie di una terra antica come la Sicilia e, là dove lo strazio era forse troppo forte, ricorrendo a li cunti, dove le voci si uniscono come in una preghiera, in un rito sacro, arcaico.
“L’Abisso” ha una partitura dal forte impatto emotivo che inchioda il pubblico e, in 70 minuti, lo conduce dentro la Storia, rendendolo testimone partecipe e commosso della tragedia contemporanea.