Sant’Arpino. Non una mostra, s’è detto, bensì più ampiamente un progetto espositivo ospitato nei grandi spazi dell’Opificio Puca, ex stabilimento industriale di conserverie alimentari e prodotti manufatturieri, oggi riconvertito a centro per l’arte contemporanea e GalleriaStudioLegale.
Il vernissage è stato inaugurato domenica scorsa la mostra sarà visitabile fino al 7 settembre. Il titolo dell’esposizione, per chi di arte se ne intende, rimanda subito all’arte di Emilio Isgrò con le sue cancellature intenzionalmente prodotte ma qui, al di là della parola scritta, si registra immediatamente una ricerca fortemente voluta dal direttore artistico, il gallerista Antonio Rossi.
Da perfetto padrone di casa che accoglie i suoi ospiti, non esita a confessarmi di non considerarsi un mercante d’arte nell’accezione più tradizionale del termine.
Antonio, infatti, condivide la necessità di una ricerca che va dalle primissime fasi dell’organizzazione del progetto fino alla selezione degli artisti che muove in tale direzione.
L’esposizione si compone di tantissime e variegate espressioni d’arte: dalla pittura alla scultura, alle installazioni video ricreate all’interno di interi ambienti della struttura nel segno di una profonda contaminazione.
Anche gli artisti, di provenienza e di generazioni diverse, si combinano dialogando apparentemente in contrasto tra loro. Nomi come Raffaele Bova, Francesca Dondoglio, Erik Gustafsson, Alessandro Passaro, Kinu Kamura, Silvio Delle Moske, Ryan Mendoza e altri si mostrano senza veli in uno spazio altamente creativo.
Alcuni di questi nomi, per usare le parole di Antonio, vivono ancora “l’age du reve”, il periodo più fertile della creazione artistica, facendo della loro arte una pratica quotidiana o una missione di vita intesa come tentativo di riscatto. E’ questo il caso di Silvio Delle Moske che si divide tra musica e pittura cercando di esorcizzare i suoi demoni nei colori di una tela.
La sua opera, cromaticamente ispirata alla “Guernica” del celebre pittore spagnolo, è letteralmente distesa sul pavimento, adagiata su due rialzi in cemento.
In bilico tra la mitologia classica e la modernità, il soggetto si presenta con delle sembianze particolari che ricalcano quelle di una bestia arcana con un viso di donna dagli occhi celesti, una sorta di graffito contemporaneo, “un astratto di un Dio antico” tiene a precisarmi l’artista; un’esternazione primitivista declinata al femminile.
Non solo pittura ma anche installazioni site specific abitano gli spazi dell’ opificio, come quella dell’ artista Raffaele Bova: una ricca composizione di oggetti da cucina sospesi per più di venti metri lungo un filo architettato a raggiera, irregolare e scomposta, provocatoriamente definita dal titolo “Dalla terra dei fuochi alla terra dei cuochi” a voler tributare l’omaggio a una terra, (la nostra), fitta di contraddizioni e martoriata dalle ben note pratiche criminali in danno all’ambiente.
Il tutto intervallato da brevi momenti performativi, pratiche sperimentali che nascono dal nulla, azioni sceniche prive di matrice come vuole l’originario intento dell’ happening.
Volontariamente definiti inutili esercizi, ma chi di arte si nutre sa bene che proprio tale inutilità è più necessaria di molte altre cose funzionali all’uso.
Improvvisazioni nate come esplorazioni individuali consegnate ad una comunità per darvi un senso, piccoli atti di coraggio perpetrati negli ampi spazi esterni all’edificio recante i segni del tempo.
Un contesto dismesso di gradevole degrado per giocare con le parole, allestito come un teatro a cielo aperto in cui scorrono gli impulsi vitali degli artisti e di chi ha il privilegio di poterli guardare; uno spazio che diviene mondo nuovo, vitale e dinamico, centro di aggregazione culturale e sociale. Luogo di rinascita di un’intera comunità in cui è possibile respirare l’energia invisibile che va oltre la vita, pur essendo immanente alla vita.