Monaco. Sette sono le morti messe in scena, come sette sono le eroine incarnate dalla Callas, rivisitate in versione contemporanea nella grande opera-performance dell’artista serba, Marina Abramović; un’opera lirica scritta, diretta e interpretata da un’icona indiscussa, conosciuta e riconosciuta quale esponente massima della Body-Art mondiale. Un omaggio alla “Divina”, il grande “soprano drammatico d’agilità”, nella definizione che Teodoro Celli riprese per lei, ad indicare la categoria vocale in cui rientravano le prime donne ottocentesche.
Lo spettacolo, presentato in anteprima mondiale lo scorso settembre alla Bayerische Staatsoper di Monaco, avrebbe dovuto debuttare al Teatro di San Carlo all’inizio di dicembre ma è stato rinviato causa Covid. Un progetto che nasce con l’intento di mettere in connessione l’arte e gettare le basi per affrontare – insieme – un tema condiviso: morire per amore.
“Ho questo tema nella mente e nel cuore da quasi trent’anni” – confessa l’artista in un’intervista, pubblicata sul settimanale culturale Robinson di La Repubblica, a cura di Renata Caragliano e Stella Cervasio, nella quale dice di partire sempre dalla sua esperienza personale per andare poi oltre. “Io smonto la struttura operistica classica per costruirne una nuova”. Una pars destruens architettata magistralmente, tutta (o quasi) al femminile che tenta di mettere al centro una, cento, mille donne uccise da amori mal riposti.
L’unico protagonista maschile della performance è, infatti, l’attore statunitense Willem Dafoe che ucciderà sette volte la protagonista: “In scena vengo uccisa sette volte dallo stesso uomo e questo perché nella mente della Callas chi la trafiggeva era sempre Onassis, ma a morire – prosegue nell’intervista – è soltanto il corpo; la sua voce – riferendosi alla Callas – non muore e non morirà”.
Un omaggio altamente poetico che si aggiunge alle sue pluripremiate, mastodontiche performance dai significati e dai linguaggi multiformi, concettualizzate anche con l’apporto di installazioni multimediali, filmati e materie scenografiche molto peculiari. Rappresentazioni folgoranti, spesso eseguite al limite, nella verità che solo il corpo, nella sua nudità fragile riesce ad esprimere. In tale direzione, torna alla mente il celebre trittico temporale di “Thomas Lips, Relation in space e Imponderabilia”, creato negli anni 1975-76-77, a testimoniare che già gli esordi erano intrisi di questo speciale linguaggio, come miglior tradizione insegna.
La studiosa e critica d’arte Lea Vergine in un suo saggio del tempo scrisse che: “Alla base della Body-Art c’è la necessità inappagata di un amore che si estenda illimitatamente nel tempo, il bisogno di essere amati comunque per quello che si è e per quello che si vorrebbe essere con diritti illimitati”.
Con l’auspicio che questo spettacolo possa tornare quanto prima sulle tavole del più antico teatro d’opera d’Europa, nella convinzione che “la bellezza salverà il mondo”.