Milano. Dal 3 al 9 febbraio, al Teatro alla Scala, quattro grandissimi coreografi e quattro balletti infiammano il pubblico.
Debutto nazionale per “Anima Animus” di David Dawson, creato nel 2018 per il San Francisco Ballet, che vuole rievocare Carl Yung e la distinzione tra il lato maschile e quello femminile della psiche. È una coreografia caratterizzata da costumi in bianco e nero e da una scenografia di un bianco sfolgorante bordata di nero. L’opera sfrutta la profondità del palcoscenico con grande effetto, con le ballerine che avanzano dall’angolo più lontano con grandi balzi come dee guerriere. La musica è “Esoconcerto” di Ezio Bosso, che spinge i ballerini ad andare avanti, più veloce, più in alto, più forte. Il movimento è concentrato sulle gambe che fendono l’aria. Il pubblico è estasiato e gli applausi piovono sui ballerini più e più volte.
Dopo il primo intervallo, ecco “Remanso” del coreografo spagnolo Nacho Duato: è un pezzo sensuale, che rievoca la poesia di Federico Garcia Lorca, in cui i tre ballerini – tra cui l’acclamato Roberto Bolle – che già aveva portato in Italia questo balletto nel 2019 al Teatro degli Arcimboldi – si sostengono l’un l’altro in vigorosi allungamenti e prese, mentre una rosa rossa solitaria passa tra loro. È quasi un esercizio plastico e acrobatico che si svolge interamente attorno ad un paravento che, da grigio, assume poi diverse colorazioni. La musica, i “Valses poéticos” di Enrique Granados, viene mirabilmente eseguita al piano da Takahiro Yoshikawa. Ques’ultimo, così come i ballerini, è oggetto di una cascata di applausi.
Il terzo e il più giovane coreografo protagonista della serata è Philippe Kratz, tedesco formatosi in Italia a Reggio Emilia nella compagnia Aterballetto. A lui il merito di portare alla Scala la prima mondiale di “Solitude Sometimes”, su “Pyramid Song”, un iconico brano del 2001 scritto da Thom Yorke dei Radiohead. La nuova creazione per il Corpo di Ballo del Teatro alla Scala prende spunto dal “Libro dell’Amduat”, forse il principale trattato egizio sulla vita nell’aldilà e i costumi dei quattordici ballerini rivelano l’origine egizia. È un balletto quasi ipnotico, nel quale sembra al profano di individuare persino tracce di break dance. In un’intervista a Vanity Fair il coreografo ha detto di amare i loop della musica elettronica «che permettono al corpo di muoversi libero, di assecondare il beat o di andarci contro, senza i vincoli che certa musica classica impone» e in effetti la sua creazione è un costante loop, che dà l’idea dello scorrere del tempo con il movimento dal lato destro a quello sinistro del palcoscenico. Anche Kratz e i ballerini del Corpo di Ballo vengono sommerso dagli applausi.
Infine, dopo un ulteriore intervallo, l’ultimo pezzo: “Bella figura” del coreografo ceco Jiri Kyliàn. Inizia con i ballerini sul palco che sembra si stiano riscaldando, che stiano provando i passi, poi si spengono le luci e restano solo due ballerini in boxer color carne: lui è a terra, lei viene avviluppata dal sipario e sembra volersi liberare da questo abbraccio. Una scena di un’emozione unica sulla musica di Lukas Foss. Poi compaiono gli altri danzatori, a gruppi di due, di tre, o tutti insieme, in costumi rossi e neri, accompagnati dalla musica barocca di Salomon Rossi, di Giovanni Battista Pergolesi, di Antonio Vivaldi, di Giuseppe Torelli. Il pubblico è estasiato e il pezzo, tutto giocato sul seminudo, è di un’eleganza senza pari.
Una splendida serata con un pubblico giovane e felice che non esita a tributare ai danzatori e ai coreografi un diluvio di applausi.