Firenze. Al Teatro Niccolini di Firenze, dal 7 al 12 gennaio, gli estremi della cultura umanistica e di quella scientifica si intrecciano ne “L’infinito tra parentesi”, dall’omonimo libro di Marco Malvaldi, edito da Rizzoli. Il testo, attraverso vicende apparentemente quotidiane, ci sfida a entrare nel complesso rapporto tra letteratura, poesia e scienza, per interrogarci su quale debba essere la guida del nostro tempo. Malvaldi, romanziere, giallista e chimico, mescola le sue conoscenze umanistiche e scientifiche per dare vita a un itinerario tra Oppenheimer e la poesia, Star Trek e il teletrasporto, Carl Barks (il papà di Paperino), Lucrezio e la teoria cinetica dei fluidi.
A dare voce alle sue parole e a situazioni in cui conoscenza e ironia vanno di pari passo sono due attori e fratelli: Maddalena e Giovanni Crippa. Fratelli anche in scena, nei ruoli di Francesca e Paolo, lei umanista, lui scienziato, entrambi con due carriere di successo come docenti universitari. Quando Paolo lotta per diventare rettore scoppia il conflitto tra due diverse concezioni della realtà. “Non ne posso più di vedere l’Università dominata dalla scienza e dalla tecnica”, protesta Francesca, che sostiene la necessità di una visione più ampia del sapere, che non sia ridotto solo a uno sguardo di “tecnici che stringono un pochino più forte una vite progettata da altri”.
Un stretto rapporto di collaborazione di storica data che ha assunto le forme di un’intesa progettuale di elevata qualità artistica. La coproduzione della Compagnia Mauri Sturno e Fondazione Teatro della Toscana per il “Re Lear”, diretto da Andrea Baracco in prima nazionale al Teatro della Pergola dal 10 al 19 gennaio (poi al Teatro Eliseo di Roma dal 21 gennaio al 2 febbraio), è solo l’ultimo risultato di un comune percorso culturale, drammaturgico e realizzativo triennale.
In questo tempo, tale importante sinergia di ispirazione e di intenti, fondata sul patrimonio teatrale rappresentato da Glauco Mauri, Roberto Sturno e dalla loro Compagnia, ha portato anche alla formazione e al perfezionamento sul mestiere dell’attore dei diplomati della Scuola “Orazio Costa” della Fondazione, secondo la modalità di lavoro e scambio Giovani/Maestri.
“Non ho mai smesso di credere che bisogna sempre mettersi in discussione, accettare il rischio pur di far sbocciare idee nuove per meglio comprendere quel meraviglioso mondo della poesia che è il teatro.
Ed eccomi qui per la terza volta, alla mia veneranda età, impersonare Lear. Perché?
Mi sono sempre sentito non all’altezza a interpretare quel sublime crogiolo di umanità che è il personaggio di Lear. In questa mia difficile impresa mi accompagna la convinzione che per tentare di interpretare Lear non servono tanto le eventuali doti tecniche maturate nel tempo quanto la grande ricchezza umana che gli anni mi hanno regalato nel loro, a volte faticoso, cammino.
Spero solo che quel luogo magico che è il palcoscenico possa venire in soccorso ai nostri limiti. Cosa c’è di più poeticamente coerente di un palcoscenico per raccontare la vita? E nel Re Lear è la vita stessa che per raccontarsi ha bisogno di farsi teatro”.
“Quello che mi ha sempre colpito di questa tragedia, che è una delle più nere e per certi versi enigmatiche tra quelle dell’autore inglese, è che sotto quel nero sembra splendere qualcosa di incredibilmente luminoso e proprio questa luce sepolta dall’ombra la rende così affascinante.
Padri indegni e figli inetti, padri indegni che hanno generato figli inetti, le madri assenti, estromesse dal dramma, parafrasando Amleto, qui la fragilità è tutta e solo maschile. Nessuno dei personaggi è in grado di regnare, di assumersi l’onere del potere, nessuno sembra avere la statura adatta, nessuna testa ha la dimensione giusta per la corona, chi per eccesso, vedi Lear, chi per difetto vedi tutti gli altri. Solo giganti o nani in questo universo dipinto da Shakespeare.
I tormenti di Lear, di Gloucester, i turbamenti di Edgar, i desideri di Edmund, i tremori e i terrori delle tre figlie del Re, Cordelia, Goneril e Regan, attraggono da sempre perché la complessità e in alcuni casi la violenza che produce il conflitto generazionale è per forza di cose universale”.
C’è Valerio che nel 1932, quando inizia a raccontare, ha quindici anni e porta i calzoni corti. Il cuore gli batte per Luciana, ma è difficile dirlo a lei. Poi ci sono Giorgio, buono e coraggioso, Maria, che per leggerezza rischierà di perderlo, Marisa e Carlo, che molto avrà da farsi perdonare, Olga, bella e docile, Arrigo e infine Gino, con il suo grumo nero nel cuore. Sono giovani e poveri, ma uniti: nati e cresciuti a Santa Croce, a Firenze. “Il Quartiere” di Vasco Pratolini, al Teatro Studio ‘Mila Pieralli’ di Scandicci dal 10 al 12 gennaio, è il mondo, dove “anche l’aria e il sole sono cose da conquistare dietro le barricate” e solo riconoscendosi uniti si ritrova la speranza di riuscirci.
I ragazzi e le ragazze messi in scena dai Nuovi (la compagnia composta dai diplomati del Corso per Attori “Orazio Costa” della Fondazione Teatro della Toscana e delle migliori scuole di teatro italiane) sono le ‘creature comuni’ di un quartiere di Firenze che crescono negli anni che dividono le due grandi guerre; oggi quel quartiere non esiste più. Quell’isolato di case strette e connesse tra loro, come le vite che lo animavano, ha cambiato faccia, e così tutti noi, solo pochi decenni dopo ci riconosciamo diversi.
La realtà infatti, quella città aliena con i suoi bei caffè e le orchestrine, non si accontenterà a lungo di restare fuori a guardare. Farà irruzione nelle loro vite con la prepotenza del regime, delle guerre, della miseria. Distruggerà le loro case, li sparpaglierà nel mondo, li chiamerà chi alle armi, chi in carcere, chi nella lotta politica. Ma non potrà mai derubarli dell’eredità più preziosa del Quartiere, quell’incrollabile fede nell’uomo e nel valore della solidarietà.