Padula. Correva l’anno 1306 quando Tommaso II Sanseverino, conte di Marsico, diede il via alla costruzione della maestosa Certosa di San Lorenzo, a Padula, decidendo di farla edificare su un preesistente cenobio. Motivazioni prettamente politiche quelle che indussero Sanseverino: egli infatti, essendo molto vicino all’ordine certosino, voleva ingraziarsi gli angioini, notoriamente avversi all’ordine monastico di origine francese, da qui la necessità di far sorgere una seconda certosa in territorio italiano dopo quella di Serra San Bruno in Calabria.
Il complesso monastico padulese fu intitolato a San Lorenzo in quanto la chiesa che sorgeva in loco era dedicata al santo il cui martirio avvenne su una graticola. Ma perché la Certosa sorse proprio in quell’area? Perché i possedimenti di Tommaso Sanseverino erano contraddistinti da terreni molto fertili e pertanto i monaci non avrebbero avuto alcuna difficoltà per il proprio e l’altrui sostentamento. Inoltre, la zona era uno snodo particolarmente favorevole per mantenere sotto controllo i territori appartenenti al Regno di Napoli.
L’aspetto attuale della Certosa ha conservato ben poco del XIV secolo, evidenti infatti sono i richiami barocchi in quanto la struttura architettonica raggiunse la sua compiutezza proprio nel Settecento, ma i tesori architettonici delle epoche precedenti sono ancora visibili seppur in misura minore.
Nel 1600 i Sanseverino persero i propri possedimenti i quali finirono nelle mani dei certosini che ne divennero proprietari a tutti gli effetti: ebbe così inizio un periodo florido dovuto soprattutto all’oculata gestione dei proventi delle tasse pagate dai cittadini tanto che i monaci riuscirono ad ampliare la certosa aggiungendo il chiostro grande, il refettorio e lo scalone ellittico, risalente al 1779.
Con l’avvento di Murat l’ordine monastico venne soppresso, i monaci furono costretti ad abbandonare la Certosa che fu trasformata in una caserma. Come se non bastasse, l’edificio fu vittima di incredibili razzie: tele, volumi, statue, furono brutalmente depredati e mai più restituiti ai legittimi proprietari. Una perdita culturale incredibile.
Con il declino di Napoleone i monaci poterono far ritorno in Certosa ma ormai il loro peso nell’economia locale padulese era perso per sempre.
Dopo l’Unità d’Italia avvenne un’ulteriore soppressione dell’ordine monastico e stavolta i certosini lasciarono per sempre la propria casa. Nel corso dei conflitti mondiali, la Certosa fu utilizzata come campo di prigionia e di concentramento e solo agli inizi degli anni Ottanta del Novecento il monumento passò sotto la tutela della Sovrintendenza di Salerno ed Avellino che diede il via al corposo restauro della struttura.
La pianta della Certosa ricorda la famosa graticola su cui fu arso San Lorenzo ma questa immagine cruenta ben poco si sposa con il clima di profonda serenità che si respira percorrendone gli ambienti dove i certosini conducevano una vita dedita al lavoro e alla contemplazione.
Una volta superata la porta d’ingresso, il visitatore si trova dinanzi ad un vasto cortile di forma rettangolare delimitato da due costruzioni su entrambi i lati: nei secoli addietro, all’interno di questi edifici trovarono collocazione le scuderie, le stalle, la farmacia, la lavanderia. Inoltre, lateralmente al portone principale della Certosa si accede ai giardini che circondano l’intero complesso.
Abbiamo già anticipato che lo stile predominante è il barocco ma la facciata esterna risale al Cinquecento e le sculture dedicate a San Bruno, San Paolo, San Lorenzo e San Pietro risalgono al 1718. Sul secondo livello trovano posto la Vergine e Sant’Anna insieme ai quattro evangelisti, in cima, invece, è collocata la Madonna circondata da due putti e da altre due statue che raffigurano la Religione e la Perseveranza.
Una volta entrati, il primo ambiente visitabile è il Chiostro della Foresteria: la splendida fontana in marmo situata al centro, il portico e la loggia sono tutti di epoca cinquecentesca ma a riempire gli occhi di meraviglia sono gli affreschi del piano superiore, visitabile solo in determinate circostanze, dove un ignoto artista partenopeo realizzò una serie di paesaggi policromi.
Percorrendo il chiostro si giunge alla Chiesa la cui monumentale porta risale al Trecento. Gli ambienti sono un trionfo di ori e stucchi che si dipanano lungo la navata unica con archi ogivali e volte a crociera: sul soffitto sono riprodotte scene del Vecchio Testamento ma mancano le preziose tele che ornavano le pareti e che furono preda di razzie durante il decennio francese.
Capolavoro di intarsi in legno è il coro dei conversi, opera cinquecentesca di Giovanni Gallo, mentre alle spalle è presente il coro dei padri che sorge nella zona absidale: in esso sono riprodotte con minuziosa precisione scene del Nuovo Testamento ma anche raffigurazioni dei santi e dei martiri. L’altare maggiore è di stucco lucido con intarsi in madreperla, opera di Bartolomeo Ghetti, Giovan Domenico Vinaccia e Antonio Fontana, e posteriormente all’altare si accede alla sagrestia, un ambiente rettangolare dove sono ancora visibili i mobili del 1686 e un altro altare sulla cui sommità prende posto un ciborio risalente alla seconda metà del Cinquecento.
Il Chiostro del cimitero è stato attribuito a Domenico Vaccaro: da esso si accede al monumento funebre in onore di Tommaso Sanseverino, opera di certo realizzata da un artista che gravitava nella cerchia di Diego De Siloé, scultore catalano del Cinquecento.
Dal Chiostro si giunge al Refettorio, risalente al Quattrocento: la pianta è rettangolare e al suo interno sono presenti arredi in legno e un affresco del 1749 che riproduce le Nozze di Cana. Il pavimento della sala è in marmi policromi mentre il chiostro adiacente è un’altra preziosa testimonianza del Trecento.
Maioliche gialle e verdi animano le pareti della cucina ma l’affresco raffigurante la Deposizione di Cristo segnala che originariamente l’ambiente non era destinato a scopi culinari. Presenti anche due ampi tavoli in marmo e guardandoli non si può fare a meno di chiedersi se la leggenda della Frittata delle 1000 uova sia solo frutto di fantasia o se Carlo V si sia davvero fermato di ritorno da Tunisi per riposarsi e per assaggiare il celeberrimo pasto preparato dalla popolazione padulese.
Il Chiostro dei procuratori presenta una fontana in pietra raffigurante alcuni animali mentre al piano superiore vi è l’antica biblioteca. Occorre fare una precisazione: in questo articolo abbiamo deciso di soffermarci esclusivamente sugli ambienti visitabili della Certosa e, purtroppo, la biblioteca non rientra tra questi, eccezion fatta per date particolari come le Giornate Europee del Patrimonio, ma la bellezza di questa sala è tale che non citarla sarebbe un autentico oltraggio. All’interno di essa erano conservati migliaia di volumi andati quasi completamente perduti (ne sono stati recuperati “solo” 1940 conservati attualmente in Certosa). La ricchezza di libri al suo interno era il fiore all’occhiello dell’ordine certosino, notoriamente tra i più colti del clero. Nell’ambiente sono ancora presenti i grandi armadi contenenti i volumi, il pavimento settecentesco attribuito a Giuseppe Massa e il grande soffitto in tela su cui sono riprodotte scene allegoriche. Alla biblioteca si giunge mediante una piccola scala elicoidale indubbiamente splendida sotto il profilo estetico ma la sua realizzazione è un capolavoro dell’architettura: 38 scalini monolitici in pietra che si aprono come un ventaglio e sono uniti tra loro unicamente da un cordolo ricavato dagli scalini stessi. L’autore è purtroppo ignoto, di lui sappiamo soltanto che visse nel XV secolo.
Grande pace si respira nel giardino del Priore a cui si accede mediante l’appartamento composto da circa 10 sale tra cui la cappella dedicata a San Michele ed il chiostro con soffitto cassettato in legno e affreschi sulle pareti che ritraggono paesaggi.
Ma gli occhi si riempiono di stupore quando si aprono sul maestoso Chiostro grande i cui lavori iniziarono nel Cinquecento e terminarono solo nel XVIII secolo: due ordini di portici per un totale di 84 pilastri con archi a tutto sesto che si aprono sul giardino comprendente anche il cimitero dei monaci realizzato basandosi su un progetto di Cosimo Fanzago. Il chiostro in questione è il più grande al mondo con i suoi 15.000 metri quadrati: un vanto assoluto del Sud Italia. Internamente al chiostro si aprono le 26 celle dove risiedevano i monaci, ciascuna composta da circa quattro stanze.
Sul versante occidentale del complesso monastico vi è il monumentale scalone ellittico realizzato nel Settecento, opera di un architetto allievo di Luigi Vanvitelli, Gaetano Barba, pur se il progetto fu ideato da Ferdinando Sanfelice. La scala è realizzata interamente in pietra di Padula ed ebbe un costo di 64.000 ducati; al centro dello scalone è visibile lo stemma della Certosa di San Lorenzo, ovvero una mitria vescovile (il priore era un vescovo), la corona di marchese, il bastone pastorale, la graticola e la fiaccola. Sullo scalone si aprono sette finestroni da cui è possibile ammirare gli immensi giardini all’italiana con vista a perdita d’occhio.
La Certosa di San Lorenzo è la prima ad essere sorta in Campania e la sua superficie complessiva è di 51.550 metri quadrati; essa si caratterizza come la certosa più grande d’Italia e tra le prime in Europa per estensione. A partire dagli anni Ottanta ha finalmente ottenuto su di sé l’attenzione che merita e nel 1998 è stata dichiarata Patrimonio Unesco. Va aggiunto che le sue meraviglie architettoniche hanno ispirato anche il cinema: nel 1967 infatti Francesco Rosi la scelse come set privilegiato del film “C’era una volta”, ambientato durante la dominazione spagnola, con l’indimenticabile Omar Sharif e la straordinaria Sofia Loren, mentre nel 1989 fu girato al suo interno “Cavalli si nasce” di Sergio Staino.
Lo abbiamo detto, la Certosa di San Lorenzo è un vanto, un inestimabile scrigno di ricchezze da annoverare con orgoglio tra i capolavori di cui l’Italia è famosa nel mondo. Ma se tanto è già stato fatto, tantissimo occorre ancora fare per preservare questa meraviglia, frutto di maestranze illustri che si sono avvicendate nei secoli. E per farlo occorre uno sforzo sinergico da protrarsi nel tempo perché, come scriveva sapientemente Debussy, “Chiudere le finestre alla bellezza è contro la ragione, e distrugge il vero significato della vita”.