Venezia. Dopo “Assassinio sull’Orient Express” e “Assassinio sul Nilo”, il celebre Hercule Poirot torna ad indagare, stavolta in Italia, regalando agli spettatori una pellicola che strizza l’occhio sia al giallo che all’horror con il conturbante titolo di “Assassinio a Venezia”.
Nato dalla prolifica penna di Agatha Christie ma svincolatosi dalla sua ideatrice nella trasposizione cinematografica, il Poirot di Kenneth Branagh ci appare in questo terzo capitolo come un uomo in età avanzata che sembra aver perso il mordente e la sagacia del passato. Ci appare, appunto.
Mentre trascorre le sue giornate passeggiando per le calli veneziane, seguito dal suo fedele assistente Vitale Portfoglio impersonato da un inquietante Riccardo Scamarcio, Poirot riceve l’inaspettata visita di Ariadne Oliver, scrittrice di successo e sua amica di vecchia data. La donna informa l’investigatore di un’imminente seduta spiritica che si terrà in occasione della notte di Halloween presso la dimora altolocata di una nota soprano, Rowena Drake, che ha perso la figlia in circostanze misteriose. Ariadne deve faticare non poco per convincere il suo esausto amico, provato psicologicamente dall’età ma soprattutto dalle vicissitudini che hanno avvelenato la sua vita personale e professionale, ma alla fine Poirot accetta di partecipare alla misteriosa serata.
L’arrivo della sensitiva, interpretata da Michelle Yeoh, è accolto con curiosità mista a reverenza ma non manca un dilagante scetticismo che vede in Poirot il più fiero sostenitore. La seduta spiritica è certamente una delle scene pregnanti del film grazie anche alle riprese a 360 gradi che inquadrano la medium mentre evoca lo spirito della defunta, però l’investigatore britannico mantiene le sue perplessità riuscendo a smantellare il macchinoso piano della donna e dei suoi ambigui assistenti.
Ma la notte è ancora lunga e il termine della seduta spiritica coinciderà con l’omicidio della sensitiva e di un altro ospite della serata, ovvero il giovane medico – che ha il volto di Jamie Dornan – che ha curato la ragazza nei mesi antecedenti alla sua morte: si tratta di un uomo enigmatico turbato dagli orrori a cui ha assistito durante il secondo conflitto mondiale e che viene accompagnato dal figlio, un bambino dall’intelligenza vivace che suo malgrado deve occuparsi del problematico genitore.
Poirot decide pertanto di chiudere tutti i presenti all’interno della dimora nobiliare e di soggiornare all’interno di essa fino a quando non avrà individuato il colpevole degli omicidi.
Il modus operandi dell’ex poliziotto procederà in modo analitico e minuzioso, come di consueto, smantellando il castello di carte sapientemente architettato non solo dalla medium ma anche dall’omicida della ragazza di cui si intuisce la delicata presenza all’interno delle tetre stanze del palazzo. Poirot stesso dubiterà delle sue capacità scientifiche vacillando pericolosamente sul baratro dell’ignoto, salvo poi rendersi conto che un omicidio ben costruito possiede sempre un punto debole e che il tassello mancante è proprio quello che consente la risoluzione del caso.
Il terzo capitolo della saga, uscito nei cinema lo scorso 14 settembre, convince molto di più rispetto al precedente. Se inizialmente Poirot ci sembra quasi ripiegato su se stesso e disposto a rinunciare al brivido delle indagini, bastano pochi frame per instillare nuovamente in lui il fascino dell’ignoto.
Gli elementi di “Assassinio a Venezia” sono combinati in modo alquanto sapiente: la dolente bellezza di Venezia, che sembra quasi burlarsi delle miserie umane in un dopoguerra che non ha intaccato la sua magnificenza, fa da sfondo ad un thriller che brilla per originalità avvalendosi di atmosfere cupe esaltate da una fotografia di alto livello.
Il sospetto che dilaga e che mette alla berlina chiunque incontri lo sguardo inquisitorio di Poirot è l’ingrediente principale di una pellicola che, pur allontanandosi notevolmente dall’opera di Agatha Christie, non ha nulla da invidiare alle avvincenti pagine del romanzo da cui prende spunto.
Il film getta una luce anche sulle ombre del suo protagonista, Poirot infatti ci appare nella sua autentica umanità consentendo allo spettatore di agguantare almeno per un attimo quella debolezza dell’animo che pervade il protagonista e che rischia di intaccare anche le sue capacità professionali. E bisogna ammetterlo, l’indagine psicologica procede di pari passo con l’indagine del complicato caso portando lo spettatore a dubitare di ogni singolo soggetto ma anche di conoscere i dissidi interiori di ognuno e, pertanto, di comprendere meglio le loro meschinità.
Una pellicola indubbiamente promossa “Assassinio a Venezia” che nella sua trama complessa riesce anche a regalarci un insegnamento prezioso che appare quasi come un monito: il responsabile dei nostri dolori, spesso, ha le rassicuranti sembianze di chi amiamo.