Modena. “Balasso fa Ruzante (amori disperati in tempo di guerre)” è lo spettacolo scritto da Natalino Balasso e interpretato insieme ad Andrea Collavino e Marta Cortellazzo Wiel, una coproduzione Teatro Stabile di Bolzano ed Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale. A firmare la regia dell’allestimento, in scena al Teatro Storchi di Modena da oggi al 26 febbraio (giovedì e venerdì ore 20.30, sabato 19.00 e domenica 16.00), è Marta Dalla Via, raffinata caratterista e profonda conoscitrice delle corde espressive di Balasso / Ruzante, che tesse i fili e i toni della commedia, calibrando la vis comica con quella drammatica.
In questo testo, Balasso evoca alcune delle opere di Angelo Beolco, attore e commediografo padovano del Rinascimento, famoso per aver dato vita al personaggio di Ruzante, un contadino padovano ruspante, famelico e poltrone. L’universo a cui si ispirano le sue opere – una vera e propria eccezione nella letteratura rinascimentale – è popolato da villani rudi ed elementari ed è improntato da un’esaltazione semiseria dell’energia grezza degli istinti. La forza delle sue commedie nasce dalla comicità vitale e allo stesso tempo amara che le pervade e dal dirompete realismo espressivo.
«Accarezzavo il sogno di portare in scena il Ruzante da tempo, – afferma Natalino Balasso – nel 2001 Marco Paolini mi aveva consigliato di portarlo in scena. A distanza di 20 anni… eccomi qui. Ho riletto le opere del Ruzante e ho scritto un testo nuovo che condensasse lo spirito ruzantiano. In questa commedia i registri sono molteplici: il plot vede i tre personaggi Ruzante, Gnua e Menato attraversare tre mondi e quindi tre fasi differenti. Quello dell’eros campestre che racconta amori crudeli, un erotismo fatto di carnalità e di possesso. Poi il quadro drammatico delle guerre, della scoperta dell’altro. Infine un quadro cinico, cittadino, quando al ritorno dalla guerra Ruzante arriva a Venezia, città di mercanti, che è tutto un altro mondo».
La lingua inventata da Balasso per questo testo evoca il linguaggio Cinquecentesco di Ruzante unendo fiorentino a espressioni venete, sempre dell’epoca. «Ho voluto – prosegue l’attore – che il linguaggio fosse il fiorentino per dare l’idea di una lingua antica, e l’ho intessuto di venetismi che ho filtrato attraverso il diario di Antonio Pigafetta, navigatore vicentino contemporaneo al Ruzante che scriveva in un fiorentino intessuto da molti venetismi».
«Balasso è riuscito a ricreare un neo-dialetto obliquo, abbondante e spassoso – commenta Dalla Via – che rende concrete tre figure toccanti: l’amico rivale Menato, Gnua donna sottoposta eppure dominante e lo stesso Ruzante, un uomo contemporaneamente furbo e credulone, pavido eppure capace di uccidere, un eroe comico dentro il quale scorre qualcosa di primitivo che lo rende immortale».
Note di regia di Marta Dalla Via. In principio c’era il “ruzzare”. Ovvero il rincorrersi per giocare. Giocare / recitare sopra radici teatrali e linguistiche senza inciampare. Balasso ci è riuscito prendendo ispirazione dai testi dall’opera di Beolco e re-inventando un gergo che ne mantenesse senso e suono. Una drammaturgia fatta di scelte lessicali che sono, in pieno stile Ruzantiano, scelte politiche e polemiche. Un neo dialetto obliquo, abbondante e spassoso che rende concrete tre figure toccanti: l’amico rivale Menato, Gnua donna sottoposta eppure dominante e lo stesso Ruzante. Un uomo contemporaneamente furbo e credulone pavido eppure capace di uccidere, un eroe comico dentro il quale scorre qualcosa di primitivo che lo rende immortale.
Credo che Angelo Beolco, con il suo alter ego e le sue opere volesse dimostrare che un altro modo di fare arte/cultura era possibile e provava a fare azioni sceniche anti sistema anche quando era accolto da quel sistema. In questo credo che la vicinanza con la poetica e la visione di Natalino Balasso sia evidente.
Un mondo di villani dove la peste va e viene, dove tragico e comico sono fusi e conditi da desideri fisici inappagati e diritti non riconosciuti, viene intriso di malinconico humor.
Demistificata la città, sbeffeggiato il potere e l’idea falsata di benessere alla quale abbiamo sacrificato tutto rimane un sapore bucolico e amaro. Non resta che permettere alla risata di diventare esperienza critica su di sé e l’altro da sé, nel e per il presente.
Crediti foto: Tommaso Le Pera.