Roma. È con grande piacere, con immensa gratitudine ed una buona dose di emozione che mi appresto ad intervistare Minnie Minoprio, cantante jazz, attrice, soubrette, ballerina, presentatrice, scrittrice; insomma, una lunga e prestigiosa carriera che l’ha vista imporsi, agli inizi degli anni ’70, come una delle ‘primedonne’ dello spettacolo, talento innato arricchito dalla versatilità, dalla creatività, dalla capacità di ‘tenere sempre la scena’.
Sig.ra Minoprio, la ringrazio davvero tanto per il tempo che donerà a questa intervista. Insomma, una intera esistenza dedicata all’arte e allo spettacolo, un lungo viaggio fatto di tanto impegno, di tanta energia. Se dovesse tracciare un bilancio di questi anni di intensa vita artistica, quali sarebbero i suoi spunti di riflessione?
Una vita vissuta in pieno, senza sprecare un giorno. Incontri importanti per conoscere ogni aspetto dell’essere umano, dal carattere al livello sociale, le debolezze e i pregi. Un ‘mettersi alla prova’ in ogni situazione e la sfida di superare le difficoltà e le diffidenze da parte degli altri. Un logorante cammino verso il benessere e la sicurezza e la difesa di tutto ciò… per gli anni del tramonto. Rimane la speranza di aver regalato un po’ di simpatia e leggerezza e di essere ricordata per questo!
Parliamo dei suoi esordi. Ha iniziato davvero giovanissima.
Ho cominciato a studiare danza a quattro anni, a quindici ero già sul palcoscenico dopo avere completato gli studi in una accademia specializzata per lo spettacolo. Sono omnivora e amo ogni aspetto della vita artistica, e non solo. Sono curiosa, e voglio provare tutto, per poter dimostrare di essere capace (non sempre ci riesco!).
A diciannove anni ero già protagonista in teatro a Londra e avevo partecipato a riviste e commedie musicali. Ho lasciato tutto per amore e sono venuta in Italia per sposarmi, ma dopo poco tempo il richiamo del teatro mi impose di imparare l’italiano e ricominciare daccapo.
Nel 1959 l’incontro con Walter Chiari e Lelio Luttazzi e l’ingresso nel mondo della rivista. Quali sono i ricordi più vivi di quell’incontro e di quegli anni?
Avevo 17 anni, e feci un’audizione a Londra per questi due giganti italiani.
Cantai un brano di jazz e fui scritturata. Essendo minorenne feci 8 mesi di tournee sotto sorveglianza e ogni sera, in scena, sposai il mio ‘fidanzato’ Walter nella commedia musicale ‘Io e la Margherita’. Lelio Luttazzi mi scrisse due canzoni, sempre con lo ‘swing’. Erano gli ultimi anni della famosa ‘Dolce Vita’ romana e ci divertivamo molto quando non lavoravamo andavamo a ballare nei night e dopo al mercatino di Porta Portese, di notte, in abito da sera… oppure alla Taverna Margutta per ascoltare Modugno o i complessi di jazz e, ancora, a feste sfarzose nelle ville sulla via Appia.
Si susseguirono tanti altri lavori teatrali e cinematografici, tra cui il ruolo di “Bonita” in “Ciao Rudy” di Garinei e Giovannini con Marcello Mastroianni.
Ero l’ultima arrivata delle tredici attrici, subentrando nel ruolo della ballerina di tango che era stata assegnata inizialmente a Raffaella Carrà. Quest’ultima era stata ‘up-graded’ in un altro ruolo più importante dopo che la prima scritturata, Daisy Lumini, aveva lasciato la compagnia. L’anno successivo il mio ruolo fu preso da Loredana Bertè e non posso non pensare che, a volte, anche una cosa piccola può essere un bel trampolino di lancio.
Negli anni ’70 poi ci fu la grande popolarità televisiva, un successo ed un clamore forse addirittura inaspettati. Cosa ci racconta di quel periodo?
Lavoravo in RAI da tre anni, presentando e partecipando a trasmissioni di musica leggera ma, volendo fare un salto di qualità, accettai una ‘cosa piccola’, un cammeo in una sigla finale dello spettacolo del sabato sera, diretto da Antonello Falqui. Impersonavo una ballerina invadente e svampita che svolazzava intorno al cantante Fred Bongusto mentre cantava “Quando mi dici così”. Ebbe un successo incredibile, imitato da milioni di casalinghe in tutta l’Italia e divenne una pagina iconica della TV. Mi costrinse a diventare bionda per sempre ed era difficile farsi credere diversa dal personaggio popolare.
In tutto ciò, il suo amore innato per il jazz, che è stato sempre presente, nonostante la sua densa attività artistica in teatro e in televisione.
Ho dovuto cavalcare l’onda del successo, cantando pop music, ma alla fine ho deciso di dedicarmi al primo amore e ho scritto e prodotto una commedia musicale dedicata alla musica americana dagli albori al periodo ‘Be-Bop del dopo guerra, riallacciando i rapporti con i vecchi compagni del jazz, Romano Mussolini, Lino Patruno, Tullio de Piscopo, Marcello Rosa e tutti gli altri. Ho fatto dischi con grandi musicisti americani e ho creato un locale dedicato a loro a Roma, il Cotton Club, portandolo avanti per quindici anni insieme a mio marito Carlo Mezzano. Le difficoltà della crisi economica del 2008, seguita dalla pandemia ed il conseguente lock-down insieme al passare degli anni, mi ha costretto a delegare la gestione ad altri ma rimango sempre con un piedino nella stessa musica.
Il jazz ti tocca dentro. È una medicina, una malattia sottile senza la quale la vita è vuota e insapore, Quando interpreti il canovaccio degli accordi, improvvisando, è una deliziosa sfida, il produrre qualcosa di originale e di estremamente personale, qualcosa di tuo e di nessun altro. Quando, invece, lo ascolti, capti l’essenza del musicista che lo ha prodotto e condividi le stesse sue emozioni nel creare nuovi disegni e suoni.
Negli anni poi lei è diventata scrittrice di testi radiofonici e teatrali nonché produttrice. Insomma un’evoluzione costante, quasi un’urgenza interiore di confrontarsi con nuove esperienze.
Ho scritto programmi per la Radio Rai Uno, sulla musica cinematografica e altri argomenti. E nel 1992, incoraggiata dal romanziere Alberto Bevilacqua, ho pubblicato il mio primo romanzo, seguito da altri nove. Amo definirli “I Romanzi dei Buoni Sentimenti” perché contengono elementi che sconfiggono le avversità della vita e portano al lieto fine. Ogni storia ha un’ambientazione completamente diversa, temporale e geografica ed è frutto della mia fantasia ed indirettamente ispirata da esperienze ed incontri vissuti.
Ed infine autrice di romanzi. Come si è avvicinata al mondo della scrittura?
Ho sognato una vicenda curiosa e un amico giornalista mi ha consigliato di scriverla. Essendo di madre lingua inglese ho bisogno di un controllo al termine della bozza, per eventuali piccoli errori di grammatica o di genere, (per gli inglesi le parole non hanno né maschile né femminile!) ma scrivo di getto su uno schema preciso, come il canovaccio degli accordi di un brano musicale… il jazz c’entra sempre!
La sua carriera, dunque, è stata caratterizzata dal desiderio di imboccare sempre nuovi percorsi; una sorta di impulso a esplorare, a sperimentare, segno tangibile anche di un grande spirito d’iniziativa e di una significativa e lucida vivacità intellettuale. Questo aspetto, probabilmente, è stato uno dei segreti del suo successo, così ampio e così duraturo. Condivide questa considerazione?
La mia autobiografia s’intitola “Minnie sette spiriti”, appunto! Non essere mai completamente sazia dà la spinta ad esplorare sempre… La conoscenza non è un privilegio soltanto per le persone colte e istruite ma per tutti che, così esplorando, possono vivere una vita interessante, piena e soddisfacente.
Oggi che rapporto ha con il mondo dello spettacolo?
Il mondo dello spettacolo è come l’ufficio, c’è anche molto al di fuori di esso! Ma ogni tanto ripasso per ritrovare l’ebbrezza degli applausi!
Quali consigli suggerirebbe ad un giovane che desidera muovere i primi passi nell’ambiente artistico?
Studiare il passato, quelli che ci hanno preceduti hanno tanto da insegnare. Non mollare alle prime delusioni… stare in buona salute e non abusare del proprio fisico! Stare lontano dalla politica… essere umile e obbediente…etc etc!
Dopo il lungo periodo di stop per la pandemia, finalmente si registra la ripartenza del settore artistico, musicale, teatrale, cinematografico, non senza difficoltà. Cosa si augura per il futuro di questo significativo segmento della vita culturale e sociale del Paese?
Tutto il bene possibile. L’arte in ogni sua forma è un lavoro precario e chi lo pratica merita sostegno e comprensione. Oggi alcuni settori sono destinati a cedere di fronte alla galoppante tecnologia e bisognerà aiutare coloro che si troveranno senza lavoro a cercare nuove strade gratificanti.