Roma. “La danza non è per noi” era la frase che gli ripeteva sua madre dopo aver saputo della sua scelta di diventare un coreografo. Per lui, uomo, nato e cresciuto in una Beirut segnata dalla guerra civile, in un paese in cui la religione ha un peso particolare nella vita pubblica, non deve essere stata una scelta facile. Ma per un artista che vede la coreografia in ogni aspetto della vita, compreso quello politico, non poteva essere altrimenti. “Dance is not for us” è la nuova creazione solista dell’acclamato coreografo e danzatore franco-libanese Omar Rajeh, in prima nazionale venerdì 12 gennaio al Teatro Palladium. Lo spettacolo apre la programmazione di “Vertigine”, la stagione danza 2024 realizzata dal Centro Nazionale di Produzione della Danza Orbita | Spellbound, curata dalla co-direttrice Valentina Marini, che animerà la Capitale da gennaio a maggio. “Potrebbe essere stato strano, sotto molti aspetti, aver scelto la danza in un paese che stava uscendo da una guerra civile, dalla distruzione, dalla morte e dalla perdita. Tuttavia, la danza in quel momento sembrava essere la più rivoluzionaria delle scelte, la più provocatoria e la più conflittuale” – afferma Rajeh. E proprio da questa precisa scelta esistenziale, artistica e politica nasce il nuovo spettacolo-manifesto di una figura di spicco della scena contemporanea del mondo arabo: ospite dei più importanti festival internazionali – da Edimburgo a Romaeuropa Festival, per citarne soltanto alcuni – fondatore a Beirut della compagnia Maqamat e del festival Beirut International Platform of Dance, attivissimo nel sostegno ai giovani coreografi di Libano, Siria, Palestina e Giordania e dal 2019 residente in Francia. Non a caso qualche anno fa il giornalista Thomas Hahn scrisse su Dancer: “Omar Rajeh fa della danza contemporanea una forza propositiva nel Libano di oggi”. Con “Dance is not for us”, Omar Rajeh ci trascina dunque nel suo universo autobiografico. Alle radici della sua danza. Alle radici della sua vita. Un viaggio nel passato, verso un tempo intimo che non esiste più, trasformatosi in un’immagine sbiadita e ingannevole. Le immagini, i significati, i sentimenti, le persone, i momenti felici, tutto si è congelato. Attraverso questo viaggio, Rajeh indaga la danza come struttura di potere: il potere di accesso al sistema performativo, inteso come possibilità dei corpi singoli e di comunità in determinate aree geopolitiche di partecipare all’edificazione di un immaginario condiviso; il potere delle aspettative dei pubblici e dei sistemi di rappresentazioni e credenze che informano i corpi in scena. E, di contro, il potere del corpo danzante del coreografo che crea le proprie regole e le proprie ispirazioni, come atto di speranza, in opposizione alle istanze che lo disciplinano e normalizzano. Del resto “Dance is not for us” è anche il racconto di un’impressionante storia di abusi di potere.