Torino. Al Teatro Carignano di Torino, martedì 14 luglio alle ore 21.00, debutta la nuova coproduzione di TPE – Teatro Piemonte Europa e Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale: “Una specie di Alaska” di Harold Pinter, con la regia di Valerio Binasco e l’interpretazione di Sara Bertelà, Orietta Notari, Nicola Pannelli. Le scene e le luci sono di Jacopo Valsania e i costumi di Sandra Cardini.
Lo spettacolo sarà replicato al Carignano fino a domenica 19 luglio, nell’ambito della rassegna SUMMER PLAYS. Sere d’estate al Teatro Carignano organizzata dal Teatro Stabile di Torino e da TPE – Teatro Piemonte Europa.
L’Alaska è un incubo freddo e bianco dal quale si risveglia una ragazza rimasta in uno stato di torpore per trent’anni. A partire dalle testimonianze che il neuropsichiatra Oliver Sacks raccoglie in “Risvegli”, il Premio Nobel Harold Pinter scrive un dramma duro come una relazione scientifica e struggente come un mèlo: Valerio Binasco dirige questo brutale e commovente ritorno alla vita.
È la storia di un risveglio. Una ragazzina per una malattia è rimasta come ‘addormentata’ per quasi trent’anni. Oggi si risveglia. È convinta di andare alla festa del suo compleanno, la mamma le ha preparato un vestito per i suoi quindici anni. Ma non c’è nessuna festa. Non ci sono più né padre né madre. C’è una donna ‘vecchia’ di quarantacinque anni ed è lei stessa.
Ad aiutarla nel suo risveglio ci sono la sorella prediletta (divenuta ‘vecchia’ anche lei) e un amico di famiglia, un dottore che ha sperimentato la medicina (la L-Dopa) su di lei.
È quasi impossibile convincere quella ragazzina di ciò che le è successo. Il dottore stesso non sa se ha fatto bene. Nel bene e nel male, però, bisogna vivere lo stesso, anche se tutto è privo di senso.
Sarà una regia minimale, una regia rivolta ai soli attori, attenta a cogliere e a trasmettere la massima capacità emozionale del testo, senza tuttavia ricorrere ad altro se non al nudo spazio scenico, con elementi di scenotecnica ridotti all’essenziale.
“Una specie di Alaska” comincia come quasi tutti i Pinter. Come un incubo freddo. C’è una stanza sconosciuta e uno che fa domande a qualcun altro, che non sa rispondere. C’è il ticchettio di un orologio che scandisce la recitazione e la vita. È il tempo. Il tempo in “A kind of Alaska” è un baro. Ha truffato tutti. Oppure tutti noi siamo bari col tempo e lo truffiamo. Deborah ha trascorso la sua vita senza “essere viva”. La sua è una tragedia classica. Noi che assistiamo al suo risveglio abbiamo fatto, in fondo, lo stesso. Ma la nostra è una tragedia ordinaria. Solo i grandi artisti possono percepire la vita nel suo fluire. Per tutti gli altri, addormentati o no, c’è lo stesso destino. Sono personaggi in lutto i personaggi di “A kind of Alaska”. Tutti e tre. Il lutto per la propria vita. È un lutto che è anche una festa. Si farà una festa per celebrare tutta questa morte, in cambio di una piccola vita. La mezza età. La mezza età è meno che una mezza vita. È la mia età, oggi. È una forte emozione quella che provo adesso, mentre sto facendo una pièce dove in qualche modo tutti si risvegliano nella mezza età. Chi più chi meno. Gli occhi ancora bambini di Deborah si posano sul viso della sorella con lo stesso orrore con cui si poseranno su uno specchio. Alla sorella e al dottor Hornby non rimane che lasciarsi guardare da quegli occhi, come se non potessero far altro che offrire a Deborah un’inconscia vergogna per il loro essere vissuti in uno stato di veglia che è appena appena più cosciente del suo. Offrono le loro vite sprecate. Come quelle di tutti. Chi più chi meno. Ma lei, in tutto quello spreco, è giustificata in quanto assente. Loro ingiustificati in quanto presenti. Sono sopravvissuti alla vita tutti e tre, e ora li aspetta la vecchiaia, la fine del tempo. Il tempo che accelera il suo ballo mano a mano che la vita rallenta.
È una commedia che parla anche di Dio. Del suo unico modo di rendersi percepibile agli uomini: lasciando che la vita precipiti in un inferno. In Dante ci sono molti inferni, di cui il più famoso è quello del fuoco. Ma c’è anche quello del ghiaccio. Il suo colore è il bianco o il nessun colore. Alaska, appunto, o una specie. La coppia Pauline (sorella) – Hornby (dottore) è un esempio di vita passata e anche – lo percepiamo poeticamente – sprecata. Quello spreco che c’è nella vita di ognuno. Ecco perché questo testo è tragico in senso classico, perché lo è in senso religioso. La coppia sorella-dottore sembrano genitori sognati in un incubo. Ma se li percepiamo come simbologie genitoriali, allora il risveglio di Deborah è anche una nascita. La prima nascita è un tragitto di illusioni, e i genitori ti accompagnano nella speranza. Questa seconda nascita (che ricorda il miracolo di Lazzaro, e lo consegna alla mitologia contemporanea) è un tragitto precipitoso nella disillusione, e i genitori ti accompagnano nella disperazione. Arrendersi agli anni perduti. Arrendersi comunque.
Questo è il destino degli uomini, a cui il tempo perduto vivendo, serve solo a prepararsi alla resa. Questo è l’unico vantaggio che Hornby e Pauline hanno sulla piccola Debby. Un vantaggio enorme. E inutile.