Milano. David Byrne sul suo monumentale “Come Funziona la Musica” (2014) indica i tre punti sui quali si basa la nascita ed il mantenimento di una “scena” musicale: artisti, pubblico e club.
Senza una di queste parti il processo si sviluppa storto, quindi implode. Ne parliamo oggi con Davide Fabbri, presidente di KeepOn Live, l’associazione di categoria che, nata con lo scopo di promuovere la cultura della musica originale dal vivo, rappresenta, promuove e sostiene i Live Club ed i Festival Italiani, creando reti di valore tra gli operatori della musica dal vivo originale.
Gli artisti ottengono finalmente il reddito di discontinuità, il giovane pubblico in qualche modo può fruire ancora della 18app. Sul versante degli “spazi” cosa succede, cosa si attende?
In primis i decreti attuativi della Legge Delega sullo Spettacolo, al suo interno (finalmente) il riconoscimento dei live club, il momento è epico e delicatissimo e, allo stesso tempo, dobbiamo prestare molta attenzione ai parametri di riconoscimento, dobbiamo far sì che nessun aspetto venga tralasciato. E poi la questione dei codici Ateco per i nostri spazi, altro argomento che tanto ci preme, così come la questione del numero massimo di persone al metro quadro per il pubblico spettacolo. Insomma, il lavoro da fare è tanto così come i fronti sui quali KeepOn è impegnata.
Rapporto con le istituzioni e autonomia della gestione del palinsesto. Come conciliare questi approcci apparentemente antitetici?
L’impressione è che, correttamente, la musica dal vivo venga inquadrata anche come veicolo di istanze “altre”, ovvero inclusività, abbattimento delle barriere architettoniche, sostenibilità ambientale.
Rimane però il fatto chiave che lo spettacolo dal vivo ha un valore di per sé e per questo va riconosciuto. Non necessita a tutti i costi di altro per poter essere apprezzato in quanto tale. Poi, certo, il pubblico dei concerti rappresenta la meglio gioventù, su questo non c’è dubbio, quindi ci facciamo volentieri portatori di buone pratiche.
Come lo spettacolo musicale dal vivo sta vivendo i cambiamenti che la tecnologia mette in atto, nel bene e nel male?
La musica è senza dubbio l’ambito espressivo dove la tecnologia impatta maggiormente. Al netto della transizione digitale dei processi di gestione del suono, e del comprensibile rinnovato affetto per i vari fenomeni “analogici” o “vintage”, non esiste ambito artistico dove la produzione stessa del contenuto sia chiamata costantemente a fare i conti con gli sviluppi tecnologici. Intendo proprio al livello di ideazione e produzione.
Mentre, sul livello distributivo, ogni artefatto rincorre le modalità di diffusione della rete, lo spettacolo dal vivo rimane sé stesso.
O sei a quel concerto, o te lo raccontano gli amici, i followers, la rete. Ma in questo caso siamo nell’ambito della narrazione e non dell’esperienza.
Cosa ne pensi quindi dello streaming?
È un capitolo nuovo della fruizione artistica, musica inclusa. Occorre farci bene i conti, ma rimane il fatto che il “qui ed ora” del palco non è in alcun modo replicabile, e non lo sarà mai. Non lo è mai stato.
Occorre sottolineare anche che l’impatto economico di una produzione televisiva (di questo si tratta), per un live club medio/piccolo è insostenibile. Con in aggiunta il fatto del disincentivare le persone ad uscire, offrendo loro l’ennesima opzione di intrattenimento da remoto.
Quindi dagli anni del Covid cosa ci portiamo a casa?
Innanzitutto, una sorta di “coscienza di classe”. Va inteso in termini di comunità, naturalmente, visto che anche il più piccolo live club, in ogni caso, è soggetto a regimi fiscali e di tutela del lavoro al pari dei grandi club.
Non è un azzardo sostenere che fino a “L’ultimo concerto” la classe politica e dirigenziale non sapesse bene di cosa stesse parlando (o tacendo): ci sono i teatri, gli auditorium, i cinema e le discoteche ecc. Ma cosa fosse un “live club” fino al periodo pandemico, in effetti, nessuno lo aveva ben chiaro, non sapeva quanti siamo e cosa stiamo facendo da anni. Ora è più comprensibile.
Il Governo precedente ci ha ascoltati e si è mosso di conseguenza, quindi tanto di cappello. Però eravamo in “stato di emergenza”, per fortuna ne siamo usciti, ma mettere in chiaro parametri e sostegni per il settore dei “luoghi” della musica dal vivo anche in condizioni di normalità è la sfida. Ci stiamo lavorando, con un feedback onestamente non scontato.
Cultura di Stato (che quindi necessita di sostegno), controcultura, underground e mainstream… Tutti termini che cercano di definire (a livello simbolico e anche pratico) confini all’interno dei quali incasellare la musica dal vivo…
Non c’è mai stata così tanta musica in giro, ovunque, dappertutto. L’estate scorsa è stata definita da alcune testate giornalistiche “L’estate dell’inflazione del suono”. A mio parere meglio così del contrario, anche se scontiamo il fatto (come club e festival) di aver avuto nel 2022 i tour inizialmente programmati per tre anni a venire.
È una risposta positiva e, anche se si registra un eccesso d’offerta, (vedi la risposta muscolare degli artisti, degli operatori e, non ultimo, degli spazi) ha raccontato ancora una volta un mondo molto attivo e che necessita di maggiore messa a fuoco. È il momento di adottare norme e criteri snelli in questo senso.
Decreto Rave. L’aggregazione è un problema?
No, anzi. I live club sono parte della soluzione. C’è ovunque personale qualificato, formato e motivato ad occuparsi del tempo libero delle persone. È falso il mito di luoghi al chiuso dove tutto è concesso. Al contrario, essendo consapevoli dell’importanza di gestire il nutrimento, il divertimento ma anche la responsabilità che deriva da una professione del genere, i live club ed i festival sono davvero i luoghi ideali dove garantire il coesistere di una comunità temporanea che si assembra in attesa di qualche cosa che accade: la musica dal vivo.
Crediti foto: Julia Upali.