Napoli. Sono trascorse quasi due settimane dall’uscita del film, il 24 novembre scorso, infatti, l’ultimo lungometraggio firmato Paolo Sorrentino ha fatto approdo nelle sale italiane seguito da un consistente plauso di pubblico e critica. “È stata la mano di Dio”, presentato in concorso alla 78esima Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, dove ha vinto il Leone d’argento – Gran premio della giuria, racconta “l’età dell’oro” della vita – per citare un poeta contemporaneo –, la stagione in cui si è ancora parte di un meraviglioso tutto, la famiglia come centro del mondo, non solo nella società.
Il film, inoltre, è stato selezionato per rappresentare l’Italia agli Oscar 2022 nella sezione del miglior film internazionale. Il protagonista è il giovane Fabietto Schisa, (interpretato dall’esordiente Filippo Scotti, vincitore del premio Marcello Mastroianni) alter ego del regista, è il secondogenito taciturno e introverso di una famiglia piccolo borghese napoletana che vive con gaiezza la propria, esclusiva, autoreferenzialità.
Frequenta il liceo classico e a differenza del fratello, aspirante attore senza talento, dice di voler fare o il filosofo o il regista di film. Siamo in pieni anni ’80 quando la leggenda del “Pipe de Oro” entra negli affollati salotti di un’umanità pulsante e festosa, che scommette forsennatamente su quel bramato acquisto calcistico. Umanità costituita da interpreti eccellenti, esponenti del teatro partenopeo di qualità, tra cui preme citare oltre a Toni Servillo, anche Renato Carpentieri, Massimiliano Gallo, Lino Musella, Enzo Decaro, Luisa Ranieri ed altri.
“È stata la mano di Dio” è un viaggio a ritroso nella giovinezza interrotta del regista, una maniera altamente artistica di fare i conti con i fantasmi e le ferite. Un “Lessico Famigliare” per dirla alla Ginzburg ma anche un omaggio, necessario, ai miti della gioventù: Fellini, Capuano, Leone e Rossellini. I numi tutelari della vita ai quali restituire l’ispirazione. Quelli che gli insegnano che “la realtà è scadente” ed è fondamentale avere qualcosa da dire, che sia anche un dolore. Un lungo “Amarcord” che richiama un cinema quasi scomparso sul versante dei contenuti, capace di spaziare nella storia di Napoli ma anche il manifesto di una generazione orfana, post-terremoto, che impone la propria, personale ricostruzione.
“È stata la mano di Dio” ci insegna a non dimenticare chi siamo e dove nasciamo raccontandoci che il mito, talvolta, può beffare il destino, come accade a Fabietto che preferendo Maradona allo stadio, non troverà la morte accanto ai genitori, tragicamente scomparsi in seguito ad una fuga di gas della stufa, nella loro casa di montagna.
“È stata la mano di Dio” gli dirà suo zio, citando Maradona e quel gol annullato ai quarti di finale della Coppa del mondo FIFA 1986. Un film che ripercorre un’epoca rimasta intatta nel cuore di tanti e nel suo, animato dal calore familiare, dalla verve della madre del regista (interpretata da Teresa Saponangelo), sempre pronta a fare spassosi scherzi finendo per fingersi la segretaria di Rossellini con l’intento di ingannare benevolmente la vicina di casa trentina che si dà troppe arie costringendo poi l’intera sua famiglia, a confessare il misfatto, perché “noi siamo comunisti, e siamo onesti”.
Un film autobiografico, sincero nel dramma e nella finzione “Felliniana” che, esteticamente come i precedenti, tenta di rasentare la perfezione. E secondo noi, ci riesce.