Milano. “Misericordia” racconta una realtà squallida, intrisa di povertà, analfabetismo e provincialismo, esplora l’inferno di un degrado terribile, sempre di più ignorato dalla società.
La regista siciliana torna alla sua lingua, al suo stile, al suo universo emotivo, per raccontare la fragilità delle donne, la loro disperata solitudine. Grazie al teatro, restituisce la voce a creature che, nella società e nella storia, non ne hanno. Sono Anna, Nuzza e Bettina. Vivono in un tugurio fatiscente con un ragazzo menomato, Arturo. Durante il giorno, lavorano a maglia, confezionano “sciallette”; al tramonto si mettono sulla soglia di casa e offrono ai passanti i loro corpi cadenti. “’U picciutteddu” si muove frenetico nella stanza, non sta mai fermo. Ogni sera, alla stessa ora, va alla finestra per vedere passare la banda e sogna di suonare la grancassa. Arturo non è figlio di nessuna delle tre, lo hanno preso a vivere con loro, ma a un certo punto della storia non lo possono più tenere: gli preparano la valigia e lo lasciano andare. Prima, però, gli raccontano chi era sua madre, Lucia la zoppa…
Scrive di lei Emma Dante, nelle note di regia: “Era secca come un’acciuga e teneva sempre accesa una radiolina. La casa era china ‘i musica e Lucia abballava p’i masculi! Soprattutto per un falegname che si presentava a casa tutti i giovedì. L’uomo era proprietario di una segheria dove si fabbricavano cassette della frutta, guadagnava bene ma se ne andava in giro con un berretto di lana e i guanti bucati. Lo chiamavano “Geppetto”. Alzava le mani. Dalle legnate del padre nasce Arturo e Lucia muore due ore dopo averlo dato alla luce. Nonostante l’inferno di un degrado terribile, Anna, Nuzza e Bettina se lo crescono come se fosse figlio loro. Arturo, il pezzo di legno, accudito da tre madri, diventa bambino…”.