Paolo Damiani, compositore, direttore d’orchestra, contrabbassista e violoncellista, didatta, direttore artistico, architetto, esponente di spicco del jazz europeo, nonché candidato alle prossime elezioni del Nuovo IMAIE, dal 22 al 24 maggio, con “La Squadra per la Musica”.
Lo intervisto con enorme piacere, partendo proprio dall’impegno che lo attende a breve.
Paolo, spiegaci il perché della tua candidatura al Nuovo IMAIE? Quali sono i punti cardine del tuo programma con “La Squadra per la Musica”?
Ho accettato volentieri l’invito ricevuto da persone che stimo molto, tutti artisti e professionisti attivi in ambiti diversi, il che rappresenta ovviamente una grande ricchezza; in ogni genere c’è musica buona e meno buona. Quindi con La Squadra difendiamo con forza la qualità e l’incontro tra artisti di aree differenti. Ritengo che la pari dignità tra i generi si garantisca mediante strumenti specifici, calibrati in rapporto alle caratteristiche di ciascun genere. La garanzia dell’eguaglianza postula la tutela delle diversità e delle specificità: i generi esistono in quanto funzionali a differenti bisogni, utilizzano “qualità di linguaggio” che vanno salvaguardate, non omologate. Mi impegnerò per tutelare gli artisti di ogni età, genere e stile; incentivare la creazione artistica, lo sviluppo dello spettacolo dal vivo, la formazione e la scuola.
Certo, dopo questo lungo periodo di stop dovuto alla pandemia, il tema della ripartenza delle attività culturali, della tutela dello spettacolo dal vivo, del sostegno a tutte le forme di produzione artistica diventa un imperativo davvero urgente per risollevare l’intero settore prostrato da un anno di pressoché totale inattività.
Infatti, e in tal senso Nuovo IMAIE può fare molto di più di quanto non abbia realizzato finora. Ritengo necessario, analogamente a quanto fa Spedidam, consorella francese di Nuovo IMAIE, investire in Azione Culturale almeno il 25% dei proventi da copia privata e il 100% di quanto non ripartito (a causa di destinatari non identificati), trascorso un tempo ragionevole; dare sostegno alla creazione artistica e allo spettacolo dal vivo, a nuove band, effettuare azioni a favore della sperimentazione, dell’arte dell’improvvisazione, dei linguaggi minoritari in genere; dare sostegno permanente a festival di qualità, quelli che rischiano il Nuovo (propongo un bollino ‘Rete di festival Nuovo IMAIE’); definire compensi più adeguati per gli interpreti da parte dei giganti del web; investire in formazione e ricerca, nei rapporti con le scuole, creare dei Centri Nazionali Ricerca e Produzione; azioni per la formazione di nuovo pubblico; accompagnare il percorso professionale dei giovani musicisti, anche attraverso residenze, bandi, concorsi, borse di studio, premi, tutoraggio, aggiornamento professionale; dare sostegno alle nuove produzioni audio e video; fornire aiuti per l’attività concertistica all’estero; progettare nuove trasmissioni in Rai, radio, televisioni diverse.
Dal 2002 hai fondato e diretto il Dipartimento di Jazz presso il Conservatorio “S. Cecilia” di Roma. Come si è sviluppato il percorso che ha aperto le porte degli Istituti di Alta Formazione Artistica e Musicale alla didattica jazzistica?
È una lunga storia, che nasce proprio a Santa Cecilia con un corso libero creato da Giorgio Gaslini nei primi anni ‘70. Poi ci fu il primo corso istituzionale a Frosinone, che frequentai conseguendo la laurea in Musica Jazz. Dal 1983 ho insegnato Jazz al conservatorio dell’Aquila, per poi approdare nel 2002 a Roma. In questi anni il Jazz ha avuto enorme successo nei conservatori, ormai sono centinaia i laureati, anche grazie alla creazione di veri e propri dipartimenti, con i corsi di tutti gli strumenti o quasi.
Ti sei sempre occupato, nell’ambito della tua carriera professionale, di didattica e ricerca. Hai approfondito dunque tematiche attuali ed indissolubilmente legate all’esigenza di tradurre la formazione accademica in sperimentazione e creatività?
Sono convinto che senza ricerca la didattica non esista, a maggior ragione nel jazz e nei nuovi linguaggi. Non si tratta di trasmettere nozioni, cerco piuttosto di aiutare ogni studente a trovare la propria voce, ad acquisire il gusto della ricerca, un viaggio infinito.
Il ricercatore in musica non è necessariamente un teorico che elabora astratte speculazioni, non comunica solo con scritti o saggi, è anche un compositore o un improvvisatore, un interprete che riflette sulla propria azione artistica, la fa evolvere e la comunica, nel suo “fare scuola”. Il ricercatore in musica è uno specialista che lavora in équipe e in un “luogo” ove le informazioni e le esperienze possano circolare. La ricerca è un concreto campo di investigazione che produce gruppi musicali innovativi, opere, partiture, concerti, dischi, video, trasmissioni radiofoniche e televisive, corsi di formazione per i formatori, elemento quest’ultimo di particolare importanza. Perché non progettare centri di ricerca stabili dedicati al jazz, alle musiche improvvisate e ai nuovi linguaggi?
Prova tangibile è la nascita, nel 2014, dell’Orchestra Nazionale Jazz Giovani Talenti, composta da trenta musicisti selezionati tra i migliori studenti dei Conservatori di musica italiani.
Infatti, è una straordinaria esperienza che prevede il ricambio dei giovani musicisti ogni 2 o 3 anni, stiamo per varare la nuova edizione con 10 musicisti, dopo tanti concerti anche all’estero, un cd doppio registrato per la Parco della Musica Records, un film, due trasmissioni per la Rai… ogni musicista è invitato a comporre, considero l’ONJGT un autentico laboratorio.
Nel 2007 sei stato nominato per chiara fama membro del CNAM, il Consiglio Nazionale per l’Alta Formazione Artistica e Musicale, organo elettivo di rappresentanza del sistema della specializzazione artistica e musicale con il compito di concorrere all’attività di programmazione, di indirizzo e di coordinamento del sistema artistico, coreutico e musicale, nel rispetto dell’autonomia delle istituzioni. Cosa puoi dirci di questa esperienza? Qual è lo stato di salute del comparto AFAM?
Il CNAM, formato da circa 35 esperti, contribuiva (venne soppresso nel 2013) a programmare le scelte delle istituzioni AFAM, esprimendo pareri su nuovi corsi e sul reclutamento dei docenti. Ricordo che faticai non poco a ottenere che venissero creati autonomi corsi di strumento jazz e i relativi dipartimenti, molti membri avrebbero voluto che ad esempio chitarra jazz fosse una materia di poche ore inserita nel piano di studi di chitarra classica, lo stesso dicasi per tutti gli strumenti, il canto e la composizione.
In generale, serve un profondo cambiamento che va portato avanti con coraggio. Una riflessione didattica comparata aiuterebbe anche a chiarire meglio i campi di classica, contemporanea, elettronica, jazz e pop, i loro confini e le possibili interazioni in un’ottica didattica nuova, per meglio definire le diverse modalità di apprendimento di linguaggi musicali differenti. Oggi nel campo AFAM relativo al jazz e alle musiche improvvisate non esistono corsi che formino i formatori, tanto per dirne una. Io credo che vada affermata con forza l’importanza della relazione tra ricerca e insegnamento, tra diffusione della conoscenza e creazione di nuovi saperi. Senza ricerca non ha senso parlare di didattica.
Sei attivissimo anche come direttore artistico; infatti hai organizzato diversi Festival Internazionali di Jazz: “Una striscia di terra feconda” e “Percorsi Jazz” a Roma, “Rumori Mediterranei” a Roccella Jonica, “Atina jazz” e sei stato tra i fondatori della rete di festival I-Jazz, composto da 65 rassegne tra le più innovative. Quanto lavoro di ideazione, di pianificazione, di programmazione…
All’inizio tutto nacque nei primi anni’80 dall’esigenza di “inventare” un modo diverso di progettare i festival, all’epoca troppo esterofili e privi di ciò che a mio parere caratterizza una bella rassegna: equilibrio tra giovani sconosciuti da valorizzare e artisti affermati, commissione di nuove musiche, residenze, incontri multidisciplinari, attenzione alla formazione, spazio per inediti progetti, e nuovi incontri che mettano in rotta di collisione poetiche apparentemente distanti. Che meraviglia sentire Vinicio Capossela duettare con Mario Brunello, tanto per dirne una! Da 24 anni sono impegnato nella direzione di ‘’Una striscia di terra feconda”, che ha inventato per la prima volta in Europa una ‘’forma-festival’’ del tutto originale: invitare esclusivamente musicisti italiani e francesi, incentivando la creazione di incroci artistici, grazie anche alla commissione di musica inedita e alle produzioni originali, pensate per la rassegna. Molti di questi gruppi vengono poi proposti nei migliori festival francesi, diffondendo il marchio della rassegna anche oltralpe. Il successo di pubblico è crescente, lentamente si sta creando un’autentica comunità d’ascolto sia a Roma che in regione, a Palestrina, Caprarola, Subiaco, grazie alla Fondazione Musica per Roma, alla Casa del Jazz e al Polo Museale del Lazio: un incontro e uno scambio, questo è il festival. Una dimensione che migliora la qualità della vita di ciascuno, semplicemente in questo inventare legami e incroci tra Italia e Francia, spostando la musica più in là e aiutando al meglio gli artisti a emozionarci: toucher au cœur, per dirla con Armand Meignan (Direttore del festival jazz di Nantes e Presidente di quello di Le Mans), carissimo amico che dirige il festival insieme a me.
Insomma una vita all’insegna del jazz. Alla luce del tuo enorme bagaglio di esperienze artistiche, didattiche e professionali, quali sono le coordinate distintive di un musicista jazz?
Onestà intellettuale, gusto per il rischio, apertura al nuovo, rigore e soprattutto non prendersi mai troppo sul serio, non pensare di essere l’unico depositario del verbo jazzistico: il jazz è inclusione, una musica che nasce dall’ibridazione di linguaggi diversi, questo è il suo fascino profondo. Il jazz non è un genere musicale né uno stile. È un processo evolutivo simbolico, una forma di vita, un’attività governata da regole sempre diverse, in funzione di chi suona, di chi ascolta, dello spazio e delle sue possibilità acustiche. Parlerei di musiche jazz, al plurale: sono attività espressive e gesti di resistenza creativa, che costruiscono nuovi mondi.
Qual è lo stato di salute del jazz italiano?
Vedo luci e ombre. Da molti punti di vista mai stato meglio: ci sono tantissimi giovani preparati e disposti a cercare nuove ipotesi narrative, e grandi Maestri come Trovesi, Intra o Rava, che suonano con la freschezza e l’energia dei vent’anni, tra l’altro spesso circondandosi di giovani. In mezzo, tanti musicisti che assicurano ampia diffusione della musica che più amiamo, con punte di eccellenza note in tutto il mondo. Tuttavia mi piacerebbe che i festival e i club rischiassero di più, non puntando solo sui soliti nomi e/o omaggi ma proponendo musiche più sperimentali, meno consolatorie. E che alcuni musicisti fossero meno dogmatici e apprezzassero quante meraviglie si trovano ai margini del jazz, sui bordi in cui il linguaggio collassa e ci si trova a inventare suoni inauditi, nelle ibridazioni e nelle rotte di collisione. Mi piacerebbe inoltre vedere più musicisti ai concerti di jazz, come spettatori.
Vorrei che nelle scuole, Conservatori o altre realtà equiparate o private, il jazz fosse insegnato con maggiore creatività e meno regolette, nel massimo dell’apertura dei metodi e delle pratiche; bisogna incentivare la ricerca artistica e valorizzare il talento di ogni allievo, non costringendo tutti nello stesso programma e andando al di là di griglie e monte ore, gabbie che impediscono alle menti di volare: ti ricordi Bird?
Un’ ultima curiosità. Tu sei anche architetto. C’è un punto d’incontro, secondo te, tra la musica jazz e l’architettura?
Certamente, in entrambi i casi si tratta di comporre spazi, vuoti e pieni, forme e percorsi, suoni e silenzi. Di sicuro aver studiato architettura mi ha aiutato molto a comporre musica.
Grazie per il tempo che hai dedicato a questa intervista ed auguri per le prossime elezioni del nuovo IMAIE con “La Squadra per la Musica”.