Milano. Dal 12 al 17 marzo, al Piccolo Teatro Grassi, va in scena “Giorni felici”, produzione del Teatro Metastasio di Prato, con la regia di Massimiliano Civica.
Il regista, tre volte premio Ubu, affronta l’opera celebre di Samuel Beckett, affidando a Roberto Abbiati e Monica Demuru i ruoli dei coniugi protagonisti.
In “Giorni felici” una donna è sepolta dentro un monticello di sabbia, prima fino al busto, poi fino al collo. Suo marito vive in una cavità del cumolo di sabbia, alle spalle della moglie. All’inizio dello spettacolo, la donna si sveglia al suono di un campanello, sorride e dice: “Un altro giorno divino”. Affronta così una nuova giornata, sforzandosi di essere felice.
«Quel monticello di sabbia è il colpo di genio di Beckett – spiega Massimiliano Civica. – Una volta accettate le sue “assurde” premesse, che una donna viva in un deserto bloccata dentro un cumolo di sabbia con accanto un marito a mobilità ridotta, ci troviamo davanti a un testo realista, ad una situazione e a un rapporto tra i personaggi improntati ad una assoluta “banale” quotidianità. Voglio dire che se io o voi ci trovassimo nelle condizioni di Willie e Winnie, faremmo gli stessi discorsi e condurremmo, suppergiù nello stesso modo, il ménage familiare. Nessuno di noi ha il potere di rendersi invisibile, ma se lo avessimo il nostro comportamento sarebbe logico, coerente e consequenziale con quella condizione data: naturale, insomma.
L’“assurdo” di Beckett è nella montagnola, nella scelta della situazione fisica iniziale, non nei personaggi o in quello che si dicono. E la montagnola, per me, non è una metafora, ma un “corrispettivo oggettivo” di uno stato dell’anima e di una sensazione in cui ci sentiamo immersi. Quante volte ci siamo ritrovati a dire: “Mi sento un peso sul petto che non mi fa respirare”, “mi sento come dentro ad una colata di cemento che mi blocca”, “con lui la vita è un tiro alla fune”, ecc.? Ecco che questo testo di Beckett “estroflette” all’esterno una condizione esistenziale, la traduce fisicamente per renderla evidente sulla scena: siamo tutti bloccati, incapaci di guardarci negli occhi, di avanzare verso l’altro, tutti alla ricerca disperata di un contatto che ci faccia sentire meno soli.
Se Winnie non fosse sepolta in quel monticello di sabbia, “Giorni felici” potrebbe benissimo essere una commedia all’italiana sulla vita di coppia. Con quel monticello di sabbia Beckett permette agli spettatori di scorgere l’assurdità della commedia dei nostri giorni felici: disperatamente bisognosi dell’incontro con un “tu”, siamo però incapaci di aprirci al dialogo, e perciò lo “recitiamo monologando”.
Credo che “Giorni felici” sia proprio questo: un dialogo, un tentativo di dialogo, la struggente “nostalgia” e il “sogno” di un parlarsi; un apparente ininterrotto monologo interiore che è, in realtà, un disperato cercare, a tentoni e alla cieca, la parola giusta per incontrare l’altro.
Spesso “Giorni felici” viene appunto considerato un monologo che offre ad un’attrice l’occasione di un brillante tour de force di solistica bravura. Io credo che invece Beckett abbia scritto questo testo perché, quando ci è stato tolto tutto, quando tutto sta per finire, quando di noi è rimasta solo una testa che spunta da un blocco di sabbia, solo allora ci rendiamo conto che l’unica nostra ragione d’essere e il nostro bisogno più vero è un “tu” a cui parlare. Winnie non parla mai a sé stessa, non sproloquia a vuoto: parla a Willie per sapere che Willie c’è ancora; perché il pensiero che Willie sia morto e di essere rimasta sola è per lei l’ultimo e definitivo inferno, l’unico a cui non avrebbe la forza di adattarsi, quello in cui la vita non merita più di essere vissuta. Un’assurdità assoluta.
Ecco allora che il parlare di Winnie è una sola ininterrotta preghiera: “Dimmi che ci sei”. E ogni grugnito di Willie, ogni suo faticato gesto verso Winnie, ogni suo risponderle – con ciò gli è rimasto del corpo e dell’anima – che lui c’è ancora, che per lei lui c’è ancora, è atto religioso d’amore. Quei suoi balbettii, quei suoi gesti spezzati sono alcune delle più commoventi e “afasiche” poesie d’amore mai “scritte”. Se tu ci sei, questo sarà stato un altro giorno felice, e finché ci sei ogni giorno è un giorno felice. Nonostante tutto. Nonostante quello che siamo: due piccoli esseri spaventati e bloccati.
Quando Beckett non ebbe più la forza di scrivere un dialogo, quando smise di credere in un “tu”, scivolò, con terrificante coerenza, in un completo silenzio. Perché la trascendenza è un “tu”, e quando non si ha più fede resta solo il silenzio».
Crediti foto: Duccio Burberi.