Bologna. Dopo il successo della scorsa stagione, arriva al Teatro Arena del Sole di Bologna, dal 21 al 24 marzo, la vitalità irrefrenabile e poetica di “Ragazzi di vita”, creazione corale diretta da Massimo Popolizio.
Un palcoscenico nudo, pochi oggetti di scena, 19 interpreti di esistenze genuine e spregiudicate, fedeltà al testo e attenzione alla parola. L’energia di quel piccolo popolo di ragazzi, protagonisti del primo celebre romanzo (1955) di Pier Paolo Pasolini, affiora dalla drammaturgia di Emanuele Trevi, che ne restituisce la lingua riavvicinando il teatro alla letteratura e rafforzando il legame tra il teatro stesso e le radici identitarie della città di Roma.
Il Riccetto, Agnolo, il Begalone, Alvaro, e ancora il Caciotta, Spudorato, Amerigo, sono alcuni dei “ragazzi di vita”, dalla vitalità disperata e ritratta in presa diretta nel romanzo che esplode sul palcoscenico per recitare la dura povertà delle borgate romane con la loro dolcezza furiosa, la loro impulsiva esplorazione del mondo. Un brulichio di voci e corpi che parlano in romanesco e trascorrono le loro giornate alla ricerca di qualche lira e nuovi passatempi. In queste scene prevalgono una marcata gestualità e il parlato romanesco, o meglio quella singolare invenzione verbale, di gusto espressionista e non neorealistico, che Pasolini stesso definiva una lingua inventata, artificiale. Non è insomma la lingua in cui parlano effettivamente i “ragazzi di vita”, ma la loro lingua come viene percepita dal “narratore”, che è un uomo diverso da loro (interpretato da Lino Guanciale). Una lingua carnale, lirica, in azione, espressionista, che attinge dalla lingua reale delle borgate frequentate dall’autore al suo arrivo a Roma, nel 1950, carico del dolore causato dalla radiazione dal Pci, dall’allontanamento dall’insegnamento scolastico, dalla separazione dall’amato Friuli.
A guidare il vasto repertorio di personaggi in questo affresco dove le vicende si alternano suddivise in diversi episodi e archi temporali, è la regia di Massimo Popolizio che ci porta “dentro” le giornate dei giovani sottoproletari. Racconti con cui ci restituisce la loro generosità e la loro violenza, il comico, il tragico, il grottesco di uno sciame umano che dai palazzoni delle periferie si sposta verso il centro.
“I “ragazzi” di cui parla Pasolini – spiega Emanuele Trevi – sono persone che lottano con la quotidianità. Una vitalità infelice, la loro, e la cosa più commovente in quest’opera è proprio la mancanza di felicità. I “ragazzi di vita”, più in generale, sono un popolo selvaggio, una squadra, un gruppo, un branco di povere anime perdute ritratte nei dettagli del testo, “cammini con le scarpe scarcagnate a viso in giù… se ne sta appeso così, con gli occhi scintillanti come du’ cozze”. Ma dal ritratto bisogna togliere la sociologia, il riferimento nostalgico a un popolo inurbato che Pasolini osservava già sul crinale della sua scomparsa. C’è la figurazione di qualcuno che non c’è più nella realtà, ma che esiste attraverso il teatro, nel corpo dell’attore, che è l’unica attualizzazione possibile. Non si tratta di ricreare l’emozione del bianco e nero di Accattone, quell’emozione è semplicemente inimitabile, bisogna crearne un’altra. Così come bisogna guardarsi da quell’altro errore che è la cosiddetta “riattualizzazione”. Ragazzi di vita è un romanzo intriso di musica, anzi di canto e di canzoni. E sulla nostra scena si canta in continuazione. Siamo in quell’aria, in quell’aere, che la voce di Claudio Villa ha depositato nel tempo, che a Roma è stato quasi un modo di atteggiarsi nella vita, prendendosi in giro”.
Su tutti, a fare da tessuto connettivo tra le storie del romanzo, la figura del narratore a rendere possibili e visibili tutte le scene, Lino Guanciale un osservatore che a tratti si fa mediatore fra noi che guardiamo dalla platea e la vita che si stende sul palcoscenico. “Da una parte ci sono i ragazzi immersi in quello che fanno, e incapaci di vedere oltre alle immediatezze che li tengono impegnati – continua Trevi – dall’altra c’è questo straniero che li spia, e che a differenza di loro vede tutto, parla di Roma come se la sorvolasse come un uccello rapace o un drone. Ma non si accontenta di rimanere lassù. È attratto dal basso, dove brulicano le storie. E in queste storie è sempre presente, perché è lui a farle iniziare, a colmarne le reticenze, a rimetterle in carreggiata quando i loro protagonisti sembrano dimenticarsi di quello che stavano facendo e dicendo”.