Napoli. “Il commissario Ricciardi” ha fatto parlare di sé ben prima che venisse trasmesso in televisione perché prima di tutto sono stati i romanzi di Maurizio De Giovanni a lui dedicati ad avere incantato il pubblico dei lettori.
Qualcuno definisce questi romanzi gialli o polizieschi, altri li catalogano come sentimentali e, per la verità, è innegabile che in essi si intravveda anche un profilo mistery, costituito dal fatto che il commissario di polizia Luigi Alfredo Ricciardi si porta dentro una maledizione ereditata dalla madre e consistente nella sua capacità di vedere il fantasma delle persone morte in modo violento e di ascoltarne l’ultimo pensiero. Questo segreto, pur costituendo il fil rouge delle diverse storie nonché l’elemento fondamentale che consente al commissario di risolvere le sue indagini, rimane nello scritto sullo sfondo, quasi si trattasse di qualcosa di ineluttabile.
Ben si comprende come non debba essere stato semplice trasporre questa contaminazione di generi sullo schermo e come il vero protagonista della fiction sia non tanto il commissario Ricciardi quanto l’ambiente nel quale le diverse vicende delittuose e le relative indagini si svolgono: Napoli, con tutta la sua spiritualità e con la sua dimensione corale, al tempo del fascismo e, dunque, in un contesto storico nel quale la città è annientata dal paranoico controllo della dittatura, ma mantiene una vivacità culturale del tutto peculiare.
Nonostante dunque il tema dell’indagine investigativa non costituisca certo una novità della fiction italiana, basti pensare al “Commissario Montalbano”, a “Rocco Schiavone” e financo a “Carabinieri”, e peraltro sia evidente al giurista come la verità giudiziale costituisca un elemento quasi accessorio nei vari episodi della serie, ciò che più affascina del commissario Ricciardi non è solo il personaggio, la sua inusuale sentimentalità e la malinconica inquietudine che lo accompagna, resa in modo inconfondibile dal regista e da Lino Guanciale, ma anche l’approccio corale al delitto, nel contesto del quale emergono certamente il brigadiere Maione e Bambinella, ma anche altri caratteri femminili iconici tra i quali quello di Lucia, moglie di Maione, interpretata magistralmente da Fabrizia Sacchi, della tata di Ricciardi, l’attrice Nunzia Schiano, la cui vita viene immolata alla dedizione nei confronti del commissario e delle due donne che compaiono quali alternative compagne di vita del protagonista: da un lato Livia Vezzi, interpretata da Serena Iansiti, e dall’altro lato Enrica Colombo, interpretata da Maria Vera Ratti.
Ognuna di queste figure colpisce ma forse quella più completa sotto tutti i profili è proprio Lucia, non a caso descritta dalla sua interprete come un personaggio archetipico, una grande donna che ha sofferto per una tragedia incommensurabile: ha perso il suo primogenito. Lucia, ad inizio serie, porta ancora il lutto non solo esteriore ma anche interiore, trapela dal personaggio quella malinconia che non riesce ad eliminare, nonostante si prenda cura degli altri quattro figli; in un momento successivo tuttavia Lucia si riavvicina al marito confermandosi non solo mamma, ma anche moglie passionale.
Fabrizia Sacchi ci ha confermato di aver voluto fortemente il ruolo di Lucia proprio perché la sua poliedricità le ha consentito di esplorare davvero la donna e le sue molte sfaccettature. Questa sua affermazione sembra peraltro perfettamente in linea con l’attrice che certamente non si sottrae alle sfide, basti pensare all’impegno dalla stessa profuso in U.N.I.T.A.
Affascinanti oltre agli attori sono poi i luoghi e tra tutti spicca il caffè Gambrinus, locale storico di Napoli che deve il suo nome al mitologico re delle Fiandre Joannus Primus, considerato patrono della birra. Di questo locale iconico le scene ivi girate nella fiction rimangono un ricordo indelebile posto che lo stesso locale, che ha chiuso nel novembre scorso a causa della pandemia e ha riaperto solo qualche giorno fa, vanta ora un tavolo riservato al Commissario Ricciardi.
Peraltro nell’attesa della fine della prima serie e della programmazione della seconda serie, che potremmo definire scontata, considerati gli ascolti fino ad ora registrati, i fan ben potranno addentrarsi nei luoghi cari alla fiction attraverso una visita della città partenopea “a tema”. Ed infatti, nonostante alcune scene della fiction siano state in realtà girate a Taranto, il regista non ha in alcun modo voluto omettere alcuni classici luoghi della città di Napoli: basti pensare alla Chiesa del rione Sanità ripresa con l’inconfondibile murales “RESIS-TI-AMO”, dell’artista argentino Francisco Bosoletti. L’opera, dipinta sulla facciata della basilica seicentesca nel 2016 e che raffigura una donna ed un uomo che si sorreggono l’uno con l’altra come in una danza, se certamente non risale agli anni ’30 acquisisce in realtà un significato del tutto peculiare proprio nel contesto storico della fiction, posto che rappresenta due ragazzi che, con la forza dell’amore, combattono le avversità.
Lunga vita, dunque, ad un’opera televisiva che ha, tra i tanti, anche il pregio di consentirci di viaggiare in una delle città più belle del nostro Paese in un momento in cui purtroppo il viaggio “vero e proprio” ci è in larga misura precluso.
Condivido la bravura di Fabrizia Sacchi. Una rappresentazione da teorema, impeccabile. Vorrei soltanto sottolineare che, a parte Napoli, la maggior parte delle scene sono state girate nel centro storico di Capua. Secondo me è doveroso citarlo. Capua è Capua ed è stata seconda soltanto a Roma.
Ha ragione avrei dovuto citarla. Un cordiale saluto. Francesca Ferrari