“Il grande vuoto”, uno sguardo autentico sui dolori della malattie neurodegenerative

Napoli. Al Teatro Bellini dal 5 fino a domenica 10 novembre è in scena “Il grande vuoto”, scritto e diretto da Fabiana Iacozzilli. È l’ultimo episodio della sua “Trilogia del vento”, preceduta da “La Classe” e “Una cosa enorme”, attraverso cui la regista si pone alcuni interrogativi sull’esistenza umana.
Nel primo affronta il rapporto coi maestri che durante l’infanzia mostrano o impongono delle vie già tracciate, nel secondo si occupa del rapporto con la genitorialità e il senso di cura durante la maturità.
Ora, nel terzo, offre al pubblico uno squarcio di vita quotidiana di una famiglia con due figli che devono affrontare e gestire il dolore nel vedere la madre affetta da una malattia neuro – degenerativa, a mano a mano perdere la memoria, la capacità di riconoscere i loro volti, dimenticare quelle piccole abitudini del quotidiano e ripetere, invece, incessantemente, un monologo di “Re Lear” di quando da giovane la donna faceva l’attrice.
L’autrice nello scrivere la drammaturgia, in collaborazione con Linda Dalisi, si è ispirata a “Una donna” in cui Annie Ernaux racconta della madre morta di Alzhimer in una casa di riposo dove l’aveva lasciata due anni prima.
E se l’obiettivo della Iacozzilli è al pari della Ernaux di cercare la verità su sua madre, sovrapponendo l’idea di donna che era prima e quella che è diventata in seguito e, a causa della patologia, cercando di capire cosa sia rimasto di lei, diverso ne è il modo e lo strumento adoperato.
Mentre per la scrittrice francese c’è la consapevolezza del potere creativo e distruttivo delle parole “La verità può essere raggiunta solo attraverso le parole”, per l’autrice italiana il linguaggio nasce dopo avere compreso appieno di cosa voglia occuparsi nell’opera e per farlo interroga se stessa e il pubblico su una determinata questione.
Ecco allora che ne “Il grande vuoto” l’esperienza teatrale si contamina e si sovrappone con quella video, proiettando attraverso schermi posizionati sopra il palcoscenico riprese live dei movimenti della madre in salotto, filmati precedentemente girati nella stanza da letto e in bagno.
Tutto questo per sottolineare la solitudine della donna e il suo senso di abbandono, attraverso le proiezioni che per la regista appaiono “una necessità espressiva e non un orpello”.
Il ricorso a una soluzione per così dire cinematografica pare però incidere anche sulla recitazione, soprattutto nella lunga scena a tavola, in cui si alternano pause non brevi, che non sono però riprese dalla macchina da presa per cogliere un’emozione o un momento particolare della narrazione.
L’andamento risulta allora altalenante, con alcuni cali di tensione e attenzione da parte di cui guarda, ottenendo così una narrazione a velocità e ritmo diverso e pare che questo risultato sia il frutto delle scelte di regia, che gli attori hanno giustamente rispettato.
E questo lo si è notato quando più liberi di esprimersi – Ermanno De Biagi, Francesca Farcomeni, Piero, Lanzellotti, Giusi Merli e Mona Abokhatwa per la prima volta in scena – hanno mostrato delle buone doti espressive e comunicative, capaci sia di fare sorridere e che di commuovere.

Crediti foto: Laila Pozzo.

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