Milano. “Convivo con la morte come se formassimo una coppia mal riuscita, con diffidenza, sospetto, rabbia, ma con una certa intimità dopo tutto”.
Quando muore la sorella Margarita, il 28 novembre 2017, l’autrice, Marcela Serrano, decide di isolarsi in campagna e di dedicarle, o meglio di dedicarsi, cento giorni per pensarla.
“Il mantello” è proprio la raccolta delle riflessioni scaturite da questo periodo di solitudine. Non si tratta di un romanzo, di una biografia o di un “manuale su come elaborare il lutto”, bensì di un insieme di frasi, di pensieri, non necessariamente coerenti o ordinati cronologicamente, che rispecchiano e trapelano il dolore e la sofferenza dell’autrice, perché, proprio come dice Barthes in Diario del lutto, il lutto è discontinuo e così deve essere anche il suo racconto.
Marcela si interroga sulla propria identità, ora che ha perso una delle quattro sorelle: “Quando ti muore il marito sei vedova. Quando ti muore il padre, sei orfana. Linee gerarchiche, verticali. Io non sono né una né l’altra. Sono qualcosa che non ha nome, perché la mia è una perdita orizzontale. Un bel problema: comincio già sapendo che le parole non bastano. Non ne esiste nessuna per definire il mio stato. Non hanno inventato nessuna parola per una sorella rimasta senza sorella”.
Alla luce di questa citazione sorge spontanea una domanda: a chi è utile il lutto? A chi è morto per essere ricordato, o a chi è rimasto per riscoprirsi?
L’autrice vive quest’esperienza come un viaggio verso la propria interiorità: avrebbe potuto trascorrere cento giorni in una solitudine eremitica e silenziosa, e invece ha deciso di farsi circondare dalle proprie parole, che per una scrittrice, sono le compagne migliori. Proprio a loro dà il compito più importante: quello di offrire al lettore un’immagine il più possibile veritiera e oggettiva di Margarita, di riportarne i tratti più caratteristici.
Così scopriamo l’infanzia felice e spensierata delle cinque sorelle, vissuta fianco a fianco e come in simbiosi: tra liti, giochi e cavalcate Margarita si distingue sempre come quella più spiritosa, chiacchierona e avventurosa. Si rivela anche la più combattiva: per tre volte la malattia la tocca e solo all’ultimo è in grado di portarla via.
Margarita ama scrivere, indossare i tacchi alti, cavalcare, farsi fare la manicure, discutere accanitamente per difendere il proprio punto di vista, osservare ammaliata i paesaggi della campagna, occuparsi dei propri figli e infine viaggiare, la sua vera passione.
La penna dell’autrice racconta una sorella viva, piena di interessi e impegni, testarda, ma anche incredibilmente appassionata da tutto, appassionata dalla vita. Eppure, il cancro l’ha portata via.
E allora l’autrice si chiede, perché proprio lei, perché tra tutte le persone al mondo, doveva essermi strappata una sorella?
È grazie a questa domanda, che ci facciamo tutti nel periodo del lutto, che questo libro, così intimo e personale, diventa universale: in Margarita ritroviamo un po’ di tutti i cari che abbiamo perso, che abbiamo pianto con immenso dolore e la cui morte ci ha lasciati irrimediabilmente “rammendati”.
Il viaggio che compie l’autrice dentro sé stessa è lo stesso che dovremmo compiere tutti noi quando perdiamo qualcuno: come dice Marcela nell’epilogo del proprio racconto è impossibile negare la morte, la lupa sanguinaria che prima o poi raggiungerà tutti noi. È allo stesso modo inutile allungare ed esasperare la malattia del lutto per sentire chi abbiamo perso più vicino. Così come il passato, citando Faulkner, “non muore mai. Non è nemmeno passato”, così chi è morto non è mai davvero morto finché lo ricordiamo.
L’unico strumento per prendersi una rivincita sulla morte è la memoria ed è proprio per ricordare che ognuno di noi dovrebbe leggere questo libro.