Torino. In occasione del 400° anniversario della nascita di Molière, il Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale ha chiesto a Leonardo Lidi di mettere in scena “Il misantropo”, che ha debuttato in prima nazionale il 3 maggio con repliche che andranno avanti fino al 22. Questa nuova produzione dello Stabile di Torino si inscrive nel programma ufficiale delle celebrazioni internazionali dedicate a Molière, ed è integrata all’importante Convegno Internazionale “L’eredità di Molière: riscritture, traduzioni e rappresentazioni dal Grand Siècle all’età contemporanea” organizzato dal Dipartimento di Lingue e Letterature straniere e Culture moderne dell’Università degli Studi di Torino, in data 6 e 7 maggio, in coincidenza con le recite dello spettacolo. Leonardo Lidi mette in scena questo intramontabile capolavoro, un testo che ancora oggi riesce a restituire al pubblico un’analisi implacabile di certe distorsioni sociali, nonché l’allucinata tragedia di un uomo ridicolo, che solo grazie all’amore può sperare di trasformare la propria buia quotidianità. Forse sarà proprio l’amore a farci spegnere il telefono e uscire di casa, ritrovando il piacere dell’incontro. In un mondo di finzioni, di autorappresentazioni, di superficialità e ipocrisie, comprendere la verità dei sentimenti non è un atto indolore, perché, come spiega bene il drammaturgo francese, l’amore non è semplice e trova il suo equilibrio tra egocentrismi e debolezze, tra desideri di attenzione e masochismi, tra sadismo e struggenti dolcezze. Leonardo Lidi, talentuoso interprete teatrale e cinematografico, regista e drammaturgo, mette in scena il capolavoro molieriano, analisi implacabile della società attuale ancora oggi, a quasi quattro secoli di distanza dal debutto (1666), tragedia di un uomo ridicolo che si trasforma nell’opportunità di dare un senso alla nostra quotidianità stravolta, grazie all’amore. Scrive Lidi: «E se ci fossimo abituati alla “chiusura”? La convinzione di essere al sicuro solo all’interno delle proprie quattro mura, comodi sui nostri divani di consapevolezza, può generare pericolose derive: se ci passasse la voglia di uscire dalle nostre certezze, se continuassimo a richiedere il cibo pronto alla porta di casa, in orario, senza dover preparare la tavola e senza dover misurarsi con la pazienza di una coda al supermercato? E soprattutto, se ci stancassimo dell’Altro? E siamo sicuri che questo processo sia nato soltanto adesso e non già da prima? Già negli ultimi dieci anni la nostra finta autosufficienza da smartphone annientava molte serate, già da prima il poter trovare un amico o un fidanzato con un click stava diventando usanza comune, forse abbiamo già ucciso l’interesse verso l’altro, la felicità di incontrare persone nuove, di affrontare nuove storie. Noi, noi, noi, solo noi, e nient’altro che noi, sulla nostra pagina, modellati da qualche filtro per non avere una faccia troppo uguale a quella del giorno prima, ma di fatto sempre la stessa solfa. Mi diverto pensando a Molière che si chiede leggendo John Donne se poi è tanto vero che nessun uomo è un’isola. E se la bella Celimene non fosse altro che una richiesta di aiuto, se non fossero i suoi tradimenti un umano interessarsi all’altro, una necessità per sentirsi parte del mondo e non relegata in una sola casa con un solo padrone? E se è vero che Molière ci presenta una società viziata e antipatica, fatta di tribunali corrotti e di marchesi dalla lingua biforcuta, è altrettanto vero che Alceste cade in un baratro sempre più profondo di autocommiserazione: se nelle prime scene cerca si sforza di combattere le mode malate del momento, battuta dopo battuta, si tappa sempre più le orecchie desiderando soltanto un eremo dove dettare le regole della propria società. Per costruire il suo mondo ideale, il suo castello di carta, ha bisogno di una dama, la madre dei prossimi cittadini, e per fortuna interviene l’amore. Il cuore e la sua ingovernabilità complicano il piano di Alceste. Da regista sono in totale disaccordo con il racconto di una Celimene superficiale e approfittatrice, è la visione ad essere superficiale, non il personaggio. Questo sarà un nodo interessante da sciogliere. Vero che Celimene inganna e che l’amore entra in scena per distruggere le volontà di Alceste, ma per noi uomini del futuro deve essere chiaro che l’amore distruttore può essere salvifico. E forse sarà proprio l’amore a farci spegnere il telefono e farci uscire di casa; sarà l’amore a permetterci di ricercare l’Altro. È l’amore che deve tornare al centro del nostro pensiero intellettuale, che una persona al nostro fianco è differente da un computer acceso sul nostro letto: sarà l’amore a salvarci dalla nostra autodistruzione?».