Modena. Un atteso ritorno è quello di Umberto Orsini in scena al Teatro Storchi con “Il nipote di Wittgenstein. Storia di un’amicizia” di Thomas Bernhard.
Uno degli spettacoli più riusciti del mattatore italiano, originariamente prodotto da ERT: nell’anno del suo debutto, il 2001, Umberto Orsini ha ricevuto il Premio Ubu per la migliore interpretazione.
Protagonista assoluto è proprio l’attore, nonché proiezione dello scrittore Thomas Bernhard che raffigura sé stesso mentre racconta a un’ascoltatrice silenziosa (Elisabetta Piccolomini) la storia di un’amicizia singolare, quella fra due pazzi. Il primo è lo stesso Bernhard, riuscito a dominare la sua pazzia, e il secondo è Paul Wittgenstein, personaggio metà reale e metà immaginario, dominato dalla follia e morto in manicomio, nipote del filosofo austriaco Ludwig Wittgenstein.
Il romanzo di Bernhard è una sorta di “concentrato” dei temi cari all’autore austriaco, il suo testo più intimo in cui affronta in modo diretto il tema chiave dei sentimenti e che ci conduce alla sua voce d’uomo e al suo universo letterario.
“Il nipote di Wittgenstein” è un testo che impone una recitazione “in solitario” – commenta Umberto Orsini – anche se la relazione con la muta presenza femminile che è in scena è fondamentale. È una difficile e impegnativa prova d’attore. Soprattutto devo fare molta attenzione mentre recito a non lasciarmi sopraffare dall’emozione. Io sono abituato a gestire le mie forze per cedere alle emozioni in funzione del testo, ma ci sono dei momenti, nel Nipote, in cui quest’economia tenta di sfuggirmi e spesso l’emozione mi stringe la gola. Occorre allora un gran controllo, perché se è noto che ci si commuove molto più per noi stessi che per gli altri, un testo come questo accende un’immensa auto-commozione. Qui non cerco di interpretare un personaggio, non “faccio Bernhard”, qui ho deciso di “essere Bernhard” e quindi più che fare un personaggio sono me stesso che parla con le parole di un autore grandissimo, che finirà comunque per prevaricarmi e quindi rappresentarsi”.
“Orsini si rivela non solo, per questo scrittore, un interprete ideale; ma un grande, severo attore della scena italiana. L’ho seguito, nella sua performance, passo passo. Egli parte a una velocità incredibile, come se volesse sbarazzarsi del testo e quindi dello spettatore. Poi rallenta. Senza un percepibile mutamento di passo, egli cambia misura e quindi tono. Da drammatico si fa narrativo, si distende nel puro racconto, ovvero nella pura rievocazione dolorosa, l’amico non c’è più, vi era stata tra i due una intesa, qualcosa aveva interrotto le due solitudini. Quando è sarcastico, Orsini imprime la voce su una sillaba, la prima o la seconda della parola cruciale di una frase. Quando è emozionato, o addirittura commosso, si concede una lunga pausa. A volte liricizza. A volte è scattante. A volte nervoso. I suoi bruschi passaggi quasi sempre introducono a una cupezza. Un attimo prima di finire, si ferma. Ricongiungendosi, idealmente, con l’altra presenza (Piccolomini), precipita nella malinconia, cresce nell’intensità” (Franco Cordelli, Corriere della Sera).
“Non c’è dubbio: “Il nipote di Wittgenstein” è uno straordinario assolo, una eccentrica e memorabile tirata in cui la voce narrante è impostata, o imposturata, come quella d’un attore. (…) Nella magistrale traduzione di Renata Colorni, Orsini snocciola o centellina il monologo con una specie di appassionato virtuosismo, mentre una silenziosa presenza femminile (l’efficace Elisabetta Piccolomini) riordina, spazza o l’aiuta nei suoi frequenti cambi d’abito” (Roberto Barbolini, Panorama).
“Che dire di Orsini sulla scena? Vigoroso, segnato in volto (ma dalla capacità maschile di trarre bellezza dai reticoli del tempo), duro e tenerissimo, sprezzante, odioso, razionale poeta dell’invettiva come il testo esige. Offre agli spettatori la classica esibizione di bravura, bravura ottenuta con la pratica diuturna del palcoscenico unita a scelte quasi mai facili o comuni (…) inni senza riserve dell’artista novarese, capace di scegliere un impervio cimento contemporaneo e di interpretarlo con rigore ed efficacia, senza mai indulgere al compiacimento e alla compiacenza” (Rita Sala, Il Messaggero).