Ravello. Intervistiamo Danilo Rea in occasione del suo concerto in duo con Fiorella Mannoia che si terrà stasera alle ore 19 presso l’auditorium Oscar Niemeyer all’interno della rassegna natalizia organizzata dalla Fondazione Ravello.
Danilo Rea è un pianista jazz cresciuto artisticamente a Roma che ha reso la poliedricità una caratteristica essenziale della sua carriera: ha collaborato con Mina, Roberto De Simone, Pino Daniele, Claudio Baglioni, Gino Paoli solo per citarne alcuni; ha fatto della rielaborazione in chiave jazz di musiche di altri generi una vera e propria cifra stilistica: si pensi al suo album in cui ha raccolto i più grandi successi di De André (“A Tribute To Fabrizio De André: Piano Works X”, ACT Music, ndr.) oppure ai suoi arrangiamenti delle più note arie dell’opera lirica.
Danilo, con Fiorella Mannoia avete realizzato un duo solido. Quale concerto può aspettarsi il pubblico di Ravello stasera?
Innanzitutto, devo dire che io e Fiorella siamo legati da un rapporto di amicizia che dura da più di trent’anni. Suoniamo insieme dagli anni ’90. L’idea di questo duo nacque quando una volta accompagnai Fiorella per l’esecuzione del brano “Oh Che Sarà”, composto da Chico Buarque. Fu un’esibizione molto emozionante per noi e così negli anni abbiamo continuato a suonare insieme. Poi, di recente ci siamo esibiti all’ “Umbria Jazz” ed in quell’occasione abbiamo deciso di sviluppare il progetto. Ci siamo resi conto di avere un’intesa incredibile e quando c’è fiducia e libertà tra due artisti sul palco si riesce a trasmettere appieno questa grande sinergia al pubblico.
Peraltro, a Ravello ritorno dopo aver già suonato in passato con Ramin Bahrami. Nello specifico, aprirò il concerto suonando per quindici minuti un assolo di pianoforte e poi inviterò Fiorella a salire sul palco così da iniziare un magnifico viaggio insieme agli spettatori; eseguiremo soprattutto brani del grande cantautorato italiano: Lucio Dalla, Pino Daniele, De Gregori e naturalmente le hit di Fiorella. Non mancherà poi lo stesso Chico Buarque.
Fiorella è una delle poche artiste capaci di far suo il pezzo in pochi secondi: è davvero un’interprete straordinaria.
Sarete soltanto un duo o vi accompagnerà anche la band?
In verità, è un puro duo. A mio avviso, senza le sovrastrutture della band, si crea una situazione molto intima, una bella atmosfera anche per il pubblico.
Nella tua carriera hai collaborato con tantissimi artisti, spaziando tra molti generi diversi tra loro. Quando hai capito di voler andare oltre i confini del jazz?
Devo ammettere che la diversificazione e la contaminazione sono state sempre idee che hanno fatto parte del mio percorso artistico. In ogni contesto, ho cercato di portare avanti un sentimento di libertà sostanzialmente improvvisando le armonie. In particolare, quando si collabora con altri artisti, occorre complicità: ad esempio, Fiorella segue le mie armonie ed io mi adagio sulle sue. In questo modo ogni show è sempre diverso dal precedente.
Alla luce della tua esperienza, quali sono i possibili sviluppi della musica jazz oggi?
Credo che sia necessaria una premessa: a mio avviso, da un punto di vista più generale, la musica sta prendendo una piega pericolosa. Onestamente, ciò che vedo nell’attuale panorama musicale è solo un pallido ricordo di quello che ho vissuto io. Ritengo che sia in atto un inaridimento pazzesco sia dei testi che della parte musicale, camuffato sotto il nome di minimalismo. Ad esempio, i cantanti sono molto omologati: lo stile canoro è uguale per tutti anche perché se l’artista non si omologa è generalmente punito dall’industria discografica.
Per il jazz, posso fare delle considerazioni simili. I giovani jazzisti sono molto tecnici ma hanno difficoltà ad emergere nel mercato musicale. In passato, fare carriera in questo settore da un lato era più facile perché si viveva in un momento storico in cui il jazz era agli albori, dall’altro, era più difficile, perché era un genere che riceveva poco spazio ed attenzione.
Ecco, posso dire che il difetto di molti musicisti di oggi può rintracciarsi in un’eccessiva freddezza interpretativa. Può darsi che le nuove generazioni abbiano studiato troppo, dovrebbero riscoprire la passionalità nell’esecuzione. È vero, il jazz necessita di molto studio ma è anche una musica viscerale ed estemporanea. Si può dire che l’errore spesso diventi creatività.
Da un punto di vista compositivo, sia nel jazz che nella musica pop, credo che ormai si pensi troppo spesso all’immagine, tralasciando l’aspetto emozionale.
In conclusione, a cosa stai lavorando in questo periodo?
In effetti, porto avanti le ordinarie attività di un musicista jazz. Sono stato in Sardegna con Michel Godard che suona la tuba e il serpentone per un concerto in cui improvvisiamo su arie dell’opera lirica. Di recente sono stato a Napoli nella classica formazione del trio jazz, con Massimo Moriconi, bassista di Mina. Le collaborazioni sono occasioni in cui si può imparare tanto ed è un aspetto bello del mestiere del musicista.
Poi, devo dire che l’ultimo concerto con Fiorella ad Avezzano è stato davvero molto emozionante e spero di riproporre la stessa emozione a Ravello. Ecco, in definitiva credo che la bravura sia un mezzo: l’importante è emozionare chi ascolta.
Crediti foto: Luigi Ceccon e Francesco Gisolfi.