Roma. A partire dallo scorso 27 ottobre Palazzo Braschi, nel cuore di Piazza Navona, ha accolto un evento espositivo unico nel suo genere che mira a valorizzare una figura artistica imprescindibile nel panorama culturale contemporaneo: Gustav Klimt.
La mostra, visitabile fino al prossimo 27 marzo, è promossa da Roma Culture, Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali, co-prodotta da Arthemisia che ha curato anche l’organizzazione con Zètema Progetto Cultura, in collaborazione con il Belvedere Museum e in cooperazione con Klimt Foundation, a cura di Franz Smola, curatore del Belvedere, Maria Vittoria Marini Clarelli, Sovrintendente Capitolina ai Beni Culturali e Sandra Tretter, vicedirettore della Klimt Foundation di Vienna.
A distanza di 110 anni l’artista di origine viennese fa ritorno nel Belpaese dove prese parte prima alla Biennale di Venezia e poi, dopo un anno, all’Esposizione Internazionale d’Arte.
Fulcro dell’iter espositivo sono le opere del maestro austriaco attraverso le tappe salienti, sottolineando il suo ruolo di cofondatore della Secessione viennese – ovvero un’associazione composta da circa 20 artisti che decisero di abbandonare l’Accademia di Belle Arti per dare vita ad un gruppo del tutto indipendente – senza però tralasciare i lavori degli artisti che appartenevano alla sua cerchia: il risultato finale consta di 200 tra dipinti, manifesti dell’epoca e sculture provenienti da collezioni, come la Neue Galerie Graz, e da realtà quali il Museo del Belvedere di Vienna e la Klimt Foundation.
Tra le proposte più significative occorre annoverare dipinti iconici come “La Sposa” ma un’attenzione particolare va dedicata a “Ritratto di Signora” e a “Giuditta I”. Del primo dipinto si erano perse le tracce nel 1997 quando venne trafugato dalla Galleria D’Arte Moderna Ricci Oddi di Piacenza: soltanto nel 2019 è stato rinvenuto in una sacca di plastica nascosta nell’incavo di una parete esterna trovando poi nuovamente collocazione nella sua dimora emiliana.
La figura di Giuditta è stata particolarmente amata dagli artisti nel corso dei secoli e Klimt non fa eccezione: nel corso della Secessione viennese la donna biblica assurge a simbolo di femme fatale spogliandosi però di ogni implicazione negativa per indossare gli abiti di una donna determinata e sicura del proprio valore. L’opera appartiene al cosiddetto periodo aureo: nel corso del suo soggiorno italiano, infatti, l’artista austriaco scoprì la lavorazione dell’oro lasciandosi ispirare soprattutto dalle suggestioni di matrice bizantina. Il sapiente taglio verticale del dipinto dà rilievo alla figura ponendo in primo piano Giuditta che domina la scena mentre la testa di Oloferne è relegata in un angolo. Il volto dell’eroina è pervaso di una profonda sensualità che si evince non solo dallo sguardo ma anche dal ricco collier composto da pietre preziose e da una massa di capelli corvini. È certo il nome della donna che ispirò Klimt per questo dipinto, si tratta infatti di Adele Bloch Bauer, un’ereditiera ebrea che nel 1907 sarà di nuovo musa del maestro.
Le donne hanno un ruolo cardine nelle opere di Klimt e non ci riferiamo esclusivamente ai dipinti ma anche ai tantissimi bozzetti propedeutici ai lavori finali. Il corpo femminile è tratteggiato con sapiente maestria valorizzandone la fertilità ma anche aspetti più scabrosi, come l’erotismo, soprattutto per l’epoca.
A fare da cornice alle 14 sezioni anche i lavori di Josef Hoffmann, Koloman Moser, Carl Moll, Johann Victor Krämer, Josef Maria Auchentaller, Wilhelm List, Franz von Matsch e molti altri ancora ma nell’allestimento di Palazzo Braschi le opere in mostra sono messe anche a confronto, attraverso un dialogo continuo, con quelle di Galileo Chini, Giovanni Prini, Enrico Lionne, Camillo Innocenti, Arturo Noci, Ercole Drei, Vittorio Zecchin e Felice Casorati, esponenti di Ca’ Pesaro e della Secessione romana.
Mediante la tecnologia è stato inoltre possibile ricostruire capolavori di Klimt andati perduti nel corso della Seconda Guerra Mondiale, regalando ai visitatori l’esperienza di osservare i vividi colori degli originali: si tratta dei “Quadri delle Facoltà – La Medicina, La Giurisprudenza e La Filosofia”, ovvero allegorie che vennero realizzate tra il 1899 e il 1907 per il soffitto dell’Aula Magna dell’Università di Vienna, poi rifiutate da quest’ultima perché ritenute scabrose. Google Arts & Culture è riuscita a ricostruire digitalmente i pannelli a colori mediante il Machine Learning, definito come un sottoinsieme dell’Intelligenza Artificiale, e grazie alla preziosa consulenza del dottor Franz Smola, curatore della mostra romana e tra i maggiori esperti di Klimt al mondo.
Un percorso espositivo di sicuro impatto quello di Palazzo Braschi che valorizza il maggiore esponente della Secessione austriaca ma con uno sguardo all’Italia che, ancora una volta, si conferma come fonte di profonda ispirazione per l’arte di ogni epoca.