Bologna. In occasione del trentennale della Compagnia della Fortezza, storico e pluripremiato ensemble fondato e diretto dal regista e drammaturgo Armando Punzo, è stato ideato un progetto speciale triennale, #trentannnidifortezza, curato da Cinzia de Felice, che prevede una serie di gesti artistici che permettono di fruire il lavoro della compagnia, come opera d’arte totale, a più livelli e in tutte le direzioni, usando diversi linguaggi. Il viaggio, iniziato nel 2018, toccherà molte città italiane nel 2019 e 2020.
#trentannidifortezza/bologna rappresenta una tappa particolarmente importante delle iniziative per i rapporti storici e consolidati che legano la Fortezza a Emilia Romagna Teatro Fondazione e all’Università – Dipartimento delle Arti: un percorso che giunge al termine il 30 e 31 marzo con le repliche di “Beatitudo” al Teatro Arena del Sole, l’ultima produzione e seconda tappa di un lungo e complesso progetto biennale ispirato all’intera opera di Jorge Luis Borges. “Beatitudo” è frutto di una ricerca intorno al rapporto tra realtà e pratica artistica; una ricerca che, con tratti più o meno espliciti, sottende il lavoro di Armando Punzo e della Compagnia, fin dalla sua origine.
Per questo spettacolo Andrea Salvadori ha ricevuto il Premio Ubu 2019 come “miglior progetto sonoro/musiche originali”.
Inoltre, fino al 31 marzo, nel foyer del Teatro Arena del Sole, è ospitata #trentannidifortezza – una luminosa lontananza: si tratta della mostra fotografica di Stefano Vaja, un racconto per immagini che ripercorre, negli anni, gli spettacoli visionari, gli allestimenti spiazzanti, i costumi sorprendenti e i momenti unici dei 30 anni della compagnia.
Così lo spettacolo nelle parole del regista: “Sono infiniti i personaggi di Borges, vengono da tutte le epoche, come a rappresentare l’intero universo. Tra queste innumerevoli figure, così fortunatamente lontane dai caratteri della vita, ce n’è una, Funes, che vuole liberarsi della sua memoria sterminata e rinominare il mondo. Sarebbe giusto, auspicabile, vivere nelle innumerevoli possibilità, obliandosi, fuori dalla storia e ancora di più dalla vanità della propria storia. Fondiamo la nostra vita su quello che siamo, non su quello che potremmo essere. E in questa staticità perdiamo il gusto del rischio di essere come non sapremo mai. Il voler dimenticare di Funes è il nostro desiderio di poter vivere al di fuori della vita passata, futura e presente. Tra i tanti personaggi di Borges sentiamo più vicini i più lontani dalla vita, quelli che tradiscono meglio le nostre aspettative, che non ci danno appigli per riconoscerci, ci sfumano tra le mani e si rendono imprendibili, consegnandoci un movimento, indicandoci una possibilità che sembra non appartenerci. Averroé, Cartaphilus, Pierre Menard, l’Uomo Grigio, Almotasim, Emma Zunz, Asterione, Tzui Pen non sono attuali, non soddisfano la nostra fame bulimica di riconoscibilità, non ci appartengono, non ci ripetono, non possiamo possederli, violentarli con il nostro sguardo e la nostra interiorità a caccia dell’anima gemella, non li possiamo vendere facilmente al mercato dei teatri della nazione, non assomigliano a nessuno di noi, non un suono che proviene da loro è un suono che ci appartiene, la loro parola non è la nostra, le loro parole sono lievi. Anche i luoghi dei suoi racconti e delle sue poesie non si prestano alla narrazione, non si materializzano in coordinate tangibili, sono sospesi, insapori, sbiaditi, come in un alto ipotetico mitico luogo che vuole essere bagnato dalla luce del sogno e non della realtà. Sono personaggi simbolici anch’essi, alla pari di quelli che, solo perché dotati di orecchie, occhi, bocca e un cuore, dovrebbero più naturalmente incuriosirci. La biblioteca, il labirinto, l’infinito, lo specchio, il giardino dei sentieri che si biforcano, le rovine circolari sono i protagonisti principali del mondo di Borges, il seme delle sue più profonde riflessioni, i luoghi di un’altra vita, circostanze innaturali che sospendono il tempo e donano un profondo senso di inadeguatezza. È come se avesse disegnato un nuovo volto, come se tutta la sua opera avesse luogo in un corpo ideale, come se fosse quella parte mancante, la punta di uno spillo in noi che cerca il suo spazio, che fa degli uomini, uomini in perenne ricerca di un senso che sfugge. “Voleva sognare un uomo, sognarlo con minuziosa interezza, e imporlo alla realtà”, mi sembra il compito che si è dato la Fortezza per 30 anni. Asciugare le acque di un fiume in piena, prosciugarle prima che inondino le pianure circostanti travolgendo tutto quello che incontrano sul loro cammino, procurando distruzione e morte, è questo il teatro che cerca di arginare la vita che dilaga in noi senza nessun freno, vita che rompe gli argini e si insinua in tutte le pieghe della nostra esistenza per possederci e soffocarci con il suo fluido limo, è questo il teatro che solleva solide barriere e svela in noi spazi inesplorati e segreti, impermeabili e irraggiungibili da queste acque sinistre e violente. Il fiume della vita scorre fino a che non inizia a scorrere la montagna che in esso si specchia immobile, silenziosa e imprevedibile”.