“La Grande Magia”, la regia di Gabriele Russo in confronto all’opera di Eduardo De Filippo

Napoli. Dal 15 ottobre al 2 novembre il Teatro Bellini propone “La Grande Magia” di Eduardo De Filippo, regia di Gabriele Russo.
È una produzione realizzata dalla Fondazione Teatro di Napoli in collaborazione con il Teatro Bellini, il Teatro Biondo di Palermo ed Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale, con Natalino Balasso nei panni di Calogero Di Spelta e Michele Di Mauro in quello di Otto Marvuglia.
Ad accompagnare i protagonisti troviamo Veronica D’Elia come Amelia Recchia, Gennaro Di Biase è Mariano D’Albino e il Brigadiere di P.S., Christian di Domenico è Arturo Recchia e Gregorio Di Spelta, Maria Laila Fernandez è la Signora Marino e Rosa Di Spelta, Alessio Piazza è Gervasio e Oreste Intrugli (genero Di Spelta), Sabrina Scuccimarra è Zaira (moglie di Marvuglia), Manuel Severino è il Cameriere dell’albergo Metropole e Gennaro Fucecchia, Alice Spisa è Marta Di Spelta e Roberto Magliano, infine Anna Rita Vitolo è la Signora Zampa e Matilde (madre Di Spelta).
In una scena aperta, realizzata da Roberto Crea, immersa in una accattivante luce verde, con in sottofondo le parole di Eduardo diffuse dall’altoparlante prima dell’inizio dello spettacolo, il pubblico viene gradualmente avvicinato a questa commedia che più di tutte “stava a cuore” al suo autore e che contemporaneamente “gli ha dato più dolore”.
Come un mantra viene ripetuto: “Che cosa vuole Eduardo? Che cosa ha fatto Eduardo? Perché Eduardo non vuole più fare le sue vecchie commedie? Perché ci propone questo testo così strampalato che esce da quelli che sono i canoni del suo teatro?”
La commedia fu scritta nel 1948 dopo “Filumena Marturano”, dopo “I Fantasmi” e “Dopo le bugie dalle gambe lunghe” con l’obiettivo di “creare una frattura significativa per quello che poteva essere un nuovo teatro, un nuovo linguaggio”.
Calogero di Spelta – il protagonista – è il borghese, legato alle sue tradizioni, al conformismo, che assolutamente non vuole guardarsi intorno, non vuole sapere quello che succede e così chiude la sua fede in una scatola consegnatagli da Otto Marvuglia, il propagandista dell’illusione .
Alla fine per essere felice rifiuta la realtà e si affida alle illusioni generate dalla mente, rimanendo così solo, con tra le mani stretta quella scatola in cui è racchiuso il suo passato, presente e futuro.
L’adulterio della moglie – la realtà – e il rifugio nell’illusione che lei sia solo scomparsa grazie a un gioco di magia piuttosto che allontanatasi volontariamente con l’amante, sono chiaramente solo un pretesto per Eduardo di dire altro, però il sotto testo nel ‘48 il pubblico non lo colse, probabilmente perché da un lato impreparato e dall’altro desideroso di leggerezza dopo le miserie della guerra mondiale.
A distanza però di 15/16 anni Eduardo ripropose l’opera, dedicandovi una registrazione che oggi è visibile sulla RAI e, in quel caso, il linguaggio teatrale fu compreso e applaudito dal pubblico e dalla critica qualificata, riuscendo così nell’intento di realizzare quella frattura tanto desiderata.
Gabriele Russo ha voluto fortemente proporre proprio “La Grande Magia”, perché – dice nelle note di regia – spinto solo dall’istinto, ritenendo che dalla stessa potessero venire fuori traiettorie artistiche significative e profonde, perché “commedia caotica sospesa come il tempo che viviamo” e quindi più aderente alla realtà attuale.
Ed è così riuscito nel difficile intento di acquistare i diritti dal nipote Tommaso De Filippo, quando era nota la ritrosia di Eduardo a far sì che altri portassero in scena i suoi testi.
Russo ha rispettato il copione originario, la scansione in tre atti, l’identità di luogo e di tempo a differenza di Emmanuel Demarcy Motta nel 2022 al Teatro de la Ville a Parigi, ma la modernità l’ha ricercata nel diverso timbro della voce dei personaggi e nel melos, ossia nello stile significativo dell’eloquio, che non possono non incidere sul ritmo generale della commedia.
La voce, infatti, crea uno spazio eterotopico nel senso che ha dato Michel Foucault, ossia uno spazio altro, proiezione di uno utopico a partire da quello reale, in cui abita il phantasma e trova-o spazio luoghi ontologicamente ibridi tra il vero e l’immaginario. E lo spazio individuato dalla voce è il supporto teoretico per l’intelligibilità del mondo contemporaneo.
Ed è in questo da ricercare il motivo per il quale le parole non sono più sussurrate o parlate ma urlate, cariche di una maggiore aggressività, così è per esempio per le ospiti dell’albergo della prima scena che urlano addosso a Calogero il loro rifiuto di uno stereotipo femminile.
È una prova non facile quella a cui si è sottoposto Russo, perché avendo a disposizione le registrazioni audiovisive il confronto è immediato.
Il merito è certamente di aver proposto qualcosa di inconsueto, cercando di discostarsi dall’autore nella modalità di rappresentare un testo di cui non è stata modificata una parola, dando vita così ad un scollamento, quasi un’incoerenza tra il senso letterale di quello che viene recitato e quello che arriva in sala attraverso parole caricate e talvolta velocizzate.

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