Napoli. Lo scorso 3 novembre alle ore 18.00, al Teatro Mercadante, si è tenuto un reading letterario della durata di 1 ora e 10 minuti dedicato a Vitaliano Trevisan, uno dei maggiori autori contemporanei che nel 2022 ha deciso di lasciarci con un’overdose di farmaci.
I bravi Massimiliano Gallo, Federica Fracassi e Salvatore D’Onofrio, diretti da Andrea Baracco, hanno dato voce alle pagine tratte da alcune delle sue opere “I quindicimila passi. Un resoconto”, “Tristissimi giardini”, “Standards”, “Back tulips” e “Work”, seguendo una drammaturgia curata da Jacopo Squizzato, produzione di Carnezzeria in collaborazione con il Campania Teatro Festival – Fondazione Campania dei Festival.
Salvatore D’Onofrio ha interpretato i pensieri di Thomas: fiumi di parole e cifre ritmate, ponderate, scelte accurate, talvolta provocatorie e d’invettiva, per descrivere più che gli avvenimenti esterni, per lui irrilevanti, il mondo interiore del protagonista abitato da ossessioni.
Queste si traducono in comportamenti compulsivi nel contare i passi per arrivare e tornare dal tabaccaio a casa, dal municipio a casa, dal negozio dei genitori a casa, dallo studio del notaio Strazzabosco a casa, annotandoli con cura sul proprio taccuino per anni, stupendosi del fatto che quel numero sia differente nell’andata rispetto al ritorno e che solo occasionalmente, durante gli spostamenti inferiori ai 300 passi, abbia potuto riscontrare, “con una certa soddisfazione”, una coincidenza di cifre.
Lo straniamento e la confusione di pensieri nella testa di Trevisan è ben resa da D’Onofrio, ancor di più quando riporta il lungo racconto delle impressioni provate dal fratello nel vedere attraverso la vetrina di un corniciaio di Vicenza di “Three Studies for Self Portrait” opera di Francis Bacon.
La voce dolce e calda di Federica Fracassi, invece, ci mostra tutta l’impotenza del vivere di Trevisan. Nella capacità dell’attrice di sospendere il suono, facendoci percepire lo stato di abbandono, Fracassi riesce a trasmettere tutta la disperata solitudine interiore del poeta, che in una totale assenza di confronto con un interlocutore – anche immaginario – non trova ostacoli e limiti alle sue elucubrazioni.
Il suo racconto, infatti, è un continuo “pensavo/pensai” che viene volutamente ripetuto spesso più volte nella stessa frase e che riguarda pure cose infinitesimali, che però per lui sono di una importanza vitale, al pari del camminare, del muoversi, perché il movimento è l’unico gesto in grado di distrarlo dal suicidio.
E allora Trevisan si sfinisce percorrendo a piedi il lungo e in largo il bosco di roveri, o meglio in uno spazio dove lui ricorda vi era un bosco, o ancora attraversando una zona artigianale e resi-enziale che una volta ricorda era occupata dalla campagna e tutto col solo scopo di mantenersi in vita.
Scopriamo però con “Tristissimi giardini” come Trevisan non fosse affatto concentrato solo su se stesso, al contrario, era attento a tutto ciò che lo circondava, non dava per scontate cose che per la maggior parte degli uomini invece lo sono, immersi nei loro automatismi, protocolli e procedure per condurre una cosiddetta vita normale.
Ed ecco una descrizione minuziosa degli spazi, perché “dicono molto sugli esseri umani” (qui fa riferimento ai giardini, ma il concetto è estendibile a tutti gli spazi, al Nord Est in generale, a Vicenza in particolare).
La resa è di “un conglomerato allo stato fluido” di parole perché rispecchia quello che appare dinanzi ai suoi occhi, volendo far coincidere forma con contenuto.
C’è infine la voce graffiante di Massimiliano Gallo, suono da strada, che ci porta on the road di “Black Tulips”, il romanzo postumo, viaggio reale e/o immaginario di Trevisan in Nigeria, accompagnato da una prostituta nigeriana conosciuta a Vicenza, da Amen il cugino e da Mudai il meccanico con cui avrebbe dovuto iniziare un’attività commerciale.
Gallo rende bene la frammentarietà del racconto, la messa in discussione della parola, espressione di un corto circuito avuto dall’autore nel confronto col diverso, reso con una sintassi che perde la sua fluidità o salta completamente, portando l’ascoltatore a non comprendere appieno cosa voglia dire, perché non è immediato quel mondo diverso che si mescola e confonde sempre di più, ed ecco allora una sovrapposizione linguistica di pidgin-english e dialetto veneto.
Le tre voci degli attori alternandosi con timbri, ritmi e volumi diversi hanno creato un’ atmosfera jazz, calata come una nebbia in platea, accentuata ancor di più dalle luci di Matteo Ziglio.