Caserta. Alla Biblioteca diocesana, il 3 gennaio, si è tenuto un incontro con Rossella Scialla, originaria della città che l’ha ospitata, per la presentazione del suo primo romanzo: “La responsabilità dei vivi”. A guidare il dialogo è stata Olga Campofreda che, con poche ma incisive domande, è riuscita a coinvolgere il pubblico e a trasmettere la passione della stessa autrice grazie al racconto del libro.
A parlare per primo è il romanzo stesso, l’autrice legge, infatti, un passaggio del libro per introdurlo agli spettatori. Le protagoniste del romanzo sembrano inizialmente essere quattro ragazze, Rossella, Lidia, Natalia e Marzia, legate da un dolore comune: la morte della quinta componente del gruppo; e sono su una nave che le sta portando da Napoli a Palermo, per compiere un funerale atipico e speciale: il piantare un albero, per vederlo crescere come avrebbero voluto veder crescere l’amica.
La narrazione è intensa, poetica e introspettiva, Rossella dimostra grande abilità nel cucire con le parole le emozioni delle protagoniste: il dolore profondo che si portano dentro per la perdita della loro amica. Quest’ultima non ha un nome, ma viene evocata costantemente con un “Tu” prepotente, centrale e potente. Nella prima parte del romanzo il “Tu” è quasi più “ingombrante” dell’ “Io” che racconta, quasi lo sovrasta, per poi trovare un equilibrio senza mai perdere la sua importanza. Ed è proprio questo “Tu”, quest’Assenza, ad essere il reale personaggio principale del romanzo, ad accompagnare le quattro ragazze nella vita, cambiandole e facendole crescere, fino a quando quel lutto non viene elaborato e non diventa altro, si trasforma, rendendo “L’Io più consapevole di sé”.
Tutta la narrazione prende spunto da una vicenda autobiografica, racconta Rossella: la morte di una cara amica della stessa autrice e di un gruppo di ragazze realmente esistite e che reagiscono e affrontano in modo diverso la separazione e il lutto, per poi, però, scappare, perché si rendono conto di essere “la cosa più importante per sopravvivere a se stesse”. Rossella, ad esempio, va a Torino e, guardando le Alpi, rivede in esse qualcosa che la protegge e la ingabbia contemporaneamente, una sorta di metafora della città di Caserta per l’autrice, da cui ha bisogno di andarsene tanto quanto, poi, di tornare.
Rossella parte da questa esperienza dolorosa per poi allontanarsene e concentrarsi su un tema opposto alla morte: la maternità.
“Le donne hanno due braccia, due gambe, due occhi in più, che si portano in giro, come se l’amica si fosse insediata dentro di loro e loro l’avessero incorporata. Ma poi queste amiche, soprattutto nella seconda parte, capiscono che queste due braccia, due gambe e due occhi sono soltanto quelle dei loro figli “, spiega l’autrice.
Rossella riflette su come la maternità e il lutto rappresentino entrambe una forma di pienezza, ingombrante in entrambi i casi. Nel lutto l’assenza diventata una presenza che riempie il cuore di dolore e incompiutezza; nella maternità, invece, è gioia, ma è anche difficile, è una rinuncia a una parte del proprio io.
Questa seconda parte del romanzo, arricchita da alcune pagine di diario, si dirama in un racconto di un futuro immaginario e immaginifico, che potrebbe essere o non essere accaduto. Utopico. Reale o forse immaginario. La voce narrante ci racconta, ma forse ci mente. Non dobbiamo affidarci troppo a lei.
A questo punto, Olga Campofreda ha chiesto a Rossella se anche per lei valesse la concezione della “scrittura come cura”. L’autrice ha prontamente risposto di no, spiegando che per lei la scrittura non è una medicina, ma piuttosto un modo per chiarire il pensiero e dare una forma al dolore che portiamo dentro. Tuttavia, ha sottolineato come questo compito sia quasi impossibile, dichiarando: “Il dolore è il fallimento della parola, la sua completa incompiutezza, impossibile da raccontare”.
Per Rossella, però, la scrittura è anche un mezzo per riportare in vita gli assenti e ristabilire un dialogo senza λόγος da una parte, un modo per dare voce a chi l’ha perduta per sempre.
L’autrice, poi, spiega di esser partita dal titolo per scrivere tutto il suo romanzo, per il quale ci sono voluti diversi anni, circa cinque. “La responsabilità dei vivi”, che per le quattro donne, spiega, è la morte.
“La morte dell’amica è il metro di paragone con la vita che hanno avuto fino a quel momento e che avranno dal momento della morte in poi. Un prima e dopo la morte. La responsabilità è schiantarsi contro la provocazione dell’astratto, del “non più” e del “non ancora”, e in quello spazio intermedio cercare di portarsi addosso un po’ di quell’amica che non c’è più”.
Alla fine dell’incontro, in un dialogo a quattr’occhi, la scrittrice ha rivelato quale fosse stato il momento più difficile durante il processo di scrittura del libro.
“Il momento più difficile per me è stato cercare di capire che direzione stesse prendendo il libro. Non avevo idea di cosa stesse diventando. Sono partita da un lutto, pensando fosse tutto autobiografico, poi a un certo punto queste donne hanno preso il sopravvento e hanno iniziato a raccontarmi tutta un’altra storia. Ho capito che quello che volevo raccontare veramente era un’assenza, non solo la morte, non solo il lutto, ma una perdita anche attraverso la maternità. C’è della maternità nella seconda parte del libro, tanta perdita, tanta rinuncia. Quello che volevo raccontare l’ho capito dopo tre anni. Ed è stato quello il momento più difficile, di svolta: capire dove stessi andando. A un certo punto ho capito che l’Assenza per me era il nucleo”.
Dopo un excursus in cui Rossella ha dispensato alcuni preziosi consigli, la scrittrice ha anticipato la domanda sui suoi progetti futuri, rivelando di aver ricominciato a scrivere dopo tre anni. Il suo obiettivo era “lasciare andare” e terminare “La responsabilità dei vivi”, che per un po’ aveva accantonato, ma che poi ha ripreso in mano. “Ho scritto una sola pagina e non so ancora dove sto andando”.
Infine, alla domanda: “Se dovessi descrivere il tuo romanzo con una sola frase o parola quale sarebbe”, Rossella ha risposto senza esitare: “Assente. L’Assente è colui che manca adesso, in questo momento. Deriva dal latino ed è un participio presente. Come si crea un dialogo con chi ci manca? Secondo me, il nucleo del libro è la Responsabilità di stabilire questo dialogo. Di portarsi quest’assenza dentro per far rivivere chi non c’è più”.
Crediti foto: Carlo Di Costanzo.