Roma. Dal 19 novembre al I dicembre al Teatro Vascello è in scena “La Scortecata” di Emma Dante, è suo il testo e sua è la regia, come suoi sono gli elementi scenici essenziali, simbolici, e i costumi semplici ed evocativi.
Si tratta della trasposizione teatrale, che già nel 2017 ebbe successo al Festival dei Due Mondi di Spoleto, di una delle fiabe popolari e tradizionali del “Cunto de li Cunti” di Giambattista Basile.
Ma qual è il senso oggi di proporre una fiaba, per giunta in dialetto napoletano del ‘600, ossia di gusto pienamente barocco, con uno stile anti-naturalistico, con accumuli lessicali, perifrasi, giochi di parole e metafore? Che poi è quanto di più lontano dalla modalità comunicativa contemporanea.
Emma Dante realizzando una Trilogia, di cui “La Scortecata” è la prima in ordine di tempo, seguita da “Pupo di zucchero” e “Re Chicchinella” che il 29 ottobre ha aperto la stagione del Teatro San Ferdinando di Napoli, ha voluto condurre uno studio intorno all’utilizzo della lingua in quell’opera dell’autore campano considerata un vera e propria “enciclopedia del parlare napoletano”.
Perché lì ci sono elementi innovativi che vengono dall’uso quotidiano, popolare, e che grazie a Basile ricevono la loro investitura letteraria e tratti conservativi, alcuni dei quali oggi sono scomparsi dal napoletano ma li ritroviamo nel dialetto irpino o in altri dialetti meridionali.
E la lingua napoletana che ascoltiamo in scena, arricchita da modi di dire ed espressioni attuali è materiale, corposa e contemporaneamente concreta, sia quando il registro è volgare sia quando è aulico, e la resa grottesca/comica o seria, che arriva a riempire interamente lo spazio del palcoscenico, attraverso il suo dire ampolloso e cortigiano.
Così appaiono più che sufficienti le suppellettili in scena: due sedioline di legno pieghevoli e il castello in miniatura in posizione centrale, con davanti la porta di legno, in un primo tempo riversa al suolo e poi alzata a separare le due sorelle Rusinella e Carolina dal re che, infatuatosi della voce della prima, vuole baciarle e toccarle il dito mignolo fatto passare nel buco della serratura.
E improvvisamente il palco non appare più spoglio perché ci sono le parole a rimandare a un mondo immaginario fatto di prìncipi e cortigiane, sogni romantici e cambiamenti radicali di vita, quasi una sorta di riscatto sociale, dove l’unico ostacolo è la bruttezza e la decadenza di corpi non più giovani.
Quei corpi, che sono sempre le parole a descrivere, vogliono tradurre la miseria materiale e umana delle due vecchie sorelle, di rara bruttezza che, accompagnate dall’andatura e dalle movenze dei due bravi Salvatore D’Onofrio e Carmine Maringola, tratteggiano la psicologia delle protagoniste.
Il risultato è il divertimento che passa attraverso lo strano, il goffo, l’assurdo di una verità popolare scomoda detta per bocca delle due vecchie, che contrasta con la pomposità del linguaggio che diventa veicolo del comico /grottesco.
Oltre allo studio intorno al dialetto la commedia di Emma Dante vuole essere una triste riflessione sulla condizione umana, sulla sua profonda solitudine, dovuta spesso a gabbie mentali o familiari così radicate dalle quali non si è più in grado di uscire, perché ci si aggrappa a rapporti simbiotici tossici, in questo caso quello delle due sorelle.
Fino a quando le attenzioni del re regalano almeno ad una di loro l’illusione di potersi sottrarre al destino di miseria, povertà e solitudine, incantandola con la seconda possibilità di staccarsi finalmente dalla sorella, perché il primo tentativo di sposarsi – peraltro con un nullafacente pur di tentare una vita diversa – è sfumato proprio per colpa dell’altra.
E più che una riflessione su quanto sia effimera la bellezza e il confronto tra l’essere e l’apparire, qui c’è il peso di un destino dal quale la più giovane, la 90enne Carolina, cerca in tutti i modi di sottrarsi preferendo la morte pur di tentare di eliminare quell’aspetto che non le rende giustizia e da cui non si sente rappresentata.
Lei però non nega la sua essenza, è consapevole di cosa sia ma anche di quello che le serve perché quella sensibilità d’animo emerga. Una traccia che serba qualcosa di bello è la voce a rivelarlo ma non è sufficiente per convincere il re a sposarla.
E dopo una movimentata notte d’amore, ben resa dalla mimica dei due attori, in cui dal buio o almeno dalla penombra si passa alla luce, il re scopre l’inganno. Carolina che aveva sfiorato la felicità, non volendo rinunciarvi, chiede a Rusinella di scorticare via il primo stato di pelle.
Ecco allora l’affievolirsi delle luci fino al buio totale, in sottofondo la dolcezza di un Pino Daniele giovanissimo con “Cammina Cammina” che fa da contro canto alla voce roca iniziale di Pietra Montecorvino con “Come facette Mammeta”.