Caserta. Lo scorso 3 dicembre, in occasione della terza edizione di “Tradizione e Tradimenti”, presso il Teatro Città di Pace di Caserta, il Liceo Classico “Alessandro Manzoni” ha incontrato il Professor Roberto Vecchioni per assistere ad una vera e propria lectio magistralis sulla felicità, sulla vita, sull’amore e sulle parole che racchiudono il senso o meglio, la radice di tutto.
In prima battuta ci sono stati i saluti della dirigente scolastica dell’istituto, la professoressa Adele Vairo, che ha focalizzato la sua attenzione sulla necessità della cultura classica per le nuove generazioni, discorso che viene ampiamente ripreso dal cantautore milanese nel corso dell’incontro.
Un viaggio durato tre ore a colpi di parole incalzate dal giornalista Luigi Ferraiuolo che ha moderato l’evento, il cui punto di partenza è dato proprio dal ruolo del poeta nelle canzoni del Professore:
“I poeti son vecchi signori che mangian le stelle distesi sui prati delle loro ville e si inventano zingare e more per farsi credibili agli occhi del mondo col loro dolore” (ndr, “I Poeti”).
Questo per dire che c’è poesia e poesia, che la poesia è duplice secondo il Professore e si nutre di un’istintività spaventosa, non solo di strutture metriche e di fonemi.
La poesia è liberazione: accende tutto quello che sembra morto dentro di noi, al pari dell’arte, la sua forza produce nell’uomo una rinascita e chi dimentica la sua essenza è perduto. Esse, dunque, svolgono una funzione vitale: consentono agli uomini di interrogarsi. E’ troppo facile dare risposte, Socrate poneva domande; nella domanda stessa si scopre l’essenza dell’umanità. E’ cosi che per una certa filosofia del pensiero occidentale si afferma ciò che non è sperimentabile: lo spirito che pervade l’umanità.
La mia anima è tutto quello che conta, con l’affermazione di essa, io individuo, non ho paura di morire. Con tali importanti assunti, il Professor Vecchioni ci conduce al di dentro dell’esperienza socratica. Socrate, infatti, quando si vide condannato da parte della città decise di accettare la sua condizione e vinse, “perchè vincere significa accettare” (ndr, “Figlia”).
L’accettazione della condizione umana, della fragilità dell’uomo, è figlia dell’Umanesimo e del pensiero Illuminista.
Ai giovani seduti in platea e attentissimi, il Professore si dona completamente nell’arco di queste ore trascorse “ad ingannare il tempo e ad inventare la vita” (ndr, “I Commedianti”), volando su e giù, in lungo e in largo lungo le pagine del tempo come i personaggi delle sue canzoni, come il ‘suo’ Icaro che “con due ali di cera si è permesso di andare a toccare il sole” (ndr, “Gli Amici Miei”).
Li sostiene, li incoraggia, dice loro di andare sempre avanti e amare la vita anche nella sofferenza perché quest’ultima è la chiave di lettura per approdare alla felicità.
Nella tragedia, in particolare nella tragedia greca, c’è tutto. Si scopre il senso della vita, di Dio, dell’amore, della guerra. In quella rappresentazione, in quel rito che non è solo ‘un particolar vedere’ ma è viverlo quel che accade, toccarlo, sentirlo quel pathos. In “Edipo a Colono” c’è tutta la tragedia di essere uomo.
“Lasciami questo orgoglio smisurato d’esser solo un uomo” canta, infatti, il Professore (ndr, “La Stazione di Zimà”). Perché alla fine di tutte le cose c’è sempre l’amore: il discorso fondamentale della vita che rende gli uomini, tutti gli uomini, universali. Solo con l’amore l’umanità non perde il suo filo che la lega al mondo; solo con l’amore, gli uomini si misurano con l’eternità: “ma guardate quest’uomo che vi ha insegnato a serrare nei pugni le cose che vanno via perché il bello degli uomini è che non hanno mai perso” (ndr, “Quest’Uomo”).
L’amore, il pathos, fanno parte del prontuario per l’umanità, uno speciale vademecum che il teatro greco nei secoli ha mostrato, perché si è trattato di visioni insite nella rappresentazione dei moti dell’animo. Visioni intimamente connesse all’etimologia delle parole: dal greco “théatron”, vedere, e dal latino “spectare”, vocaboli che rimandano sempre all’atto di guardare. In tale direzione si scorge la funzione liberatoria della tragedia. Nel mito e, in particolare, nel mito di Prometeo, si scopre l’origine di tutto, il fondo di una questione centrale per noi tutti.
La tragedia di quest’uomo attaccato alla rupe, punito da Zeus ad una pena perpetua e crudele per aver donato il fuoco agli uomini, lui, un Dio quasi-uomo perché comprende la condizione dell’umanità intera e tenta con questo atto d’amore verso la stessa di metterla in salvo emancipandola dalla paura, dalla sottomissione degli dei. “Per questo, egli dirà al Corifeo – sottolinea il Professore, con una certa enfasi- una frase molto potente: “Io ho tolto agli uomini la paura della morte. Ho immesso nel loro cuore speranze cieche”.
Partendo da queste parole importanti e antichissime il nostro Poeta, Vecchioni, ci conduce verso un discorso che ha molto a che fare con la felicità. Sì, perché la felicità, ci spiega, non è l’eden, non è l’imperturbabilità dell’esistere, al contrario, Roberto Vecchioni dice che la felicità nella sua visione consta nell’attraversamento del vento e della tempesta. Nel disfacimento, come l’amore.
“Se l’amore diventa serenità, non è più amore, è fratellanza che è ben altra cosa. L’amore condivide la matrice del dramma, l’amore – dice il Professore- è quella cosa che spacca le vene e la felicità in questo discorso c’è sempre, bisogna solo saperla riconoscere: porsi nella prospettiva giusta per saperla vedere. La felicità è una costante: c’è quando ridi, quando piangi, è nelle pause della vita stessa. La felicità è il vivere stesso la vita che è un continuo divenire perché la vita va lanciata sempre oltre nella ricerca delle cose, nel momento del dolore, nell’antitesi drammatica che talvolta essa ci riserva. La vita è anche questo e la felicità può esserle amica, sempre”.
“Ho conosciuto il dolore e l’ho preso a colpi di canzoni e parole ed era il figlio malato, la ragazza perduta all’orizzonte, il sogno strozzato, l’indifferenza del mondo alla fame, alla povertà, alla vita” (ndr, “Ho Conosciuto il Dolore”).
Ed ecco che noi tutti presenti in sala, di fronte a questa illuminante lezione di vita, comprendiamo che ci è stato dato, da un Poeta, il privilegio di comprendere. Di comprendere che anche noi, comuni mortali di questa vita, condividiamo le sorti di Adamo che di fronte alla scelta tra felicità costante ed eterna decide di intraprendere la via della libertà, dell’erranza, del cogliere il frutto proibito e quindi di decidere di essere fragile perché, adesso ci è chiaro, la felicità sta nelle contrapposizioni della vita, nell’imperfezione, sempre: “Continuate a costruire un mondo perfetto dove potete specchiarvi, i poeti non saranno neanche nessuno ma hanno il potere di sputtanarvi” (ndr, “Comici Spaventati Guerrieri”).
E allora, anche noi assieme ai 370 ragazzi riuniti in platea, ne usciamo un po’ cambiati dal teatro, forgiati dall’imprinting di Adamo, l’uomo ribelle che è in grado di fronte a tutte le storture del mondo di gridare forte “la vita contro la morte”.
Forse solo così ci può essere speranza per le nuove generazioni, la scuola deve poter aprire continuamente le stanze della mente e le parole, l’amore per le parole può fare tanto. Perché nella lingua si scopre la radice di ognuno di noi. Le parole si intrecciano, le parole rivivono, cambiano di significato. “Come bravo, dal latino ‘bravus’, un tempo esso indicava l’essere brutale, poi nel tempo è stato associato ai gladiatori romani che sterminavano gli eserciti avversari ed ecco che ha finito per significare l’opposto. Stesso discorso vale per desiderio, dal latino ‘desum’, che ha una radice di tramonto” – spiega il Professore, con riferimento al Poeta de “L’Infinito”, protagonista esclusivo dell’ultimo, grande, lavoro discografico di Vecchioni. Da grande classicista, egli cita a memoria Il Leopardi: “Lontanando morire a poco a poco”. Da questo magnifico verso è possibile cogliere il senso della perdita cristallizzata dal genio di Recanati. Lui che è stato punito dalla vita e anche dalla Storia non perché non avesse voglia di vivere, anzi. Leopardi scoppiava di vita e il suo ‘pessimismo cosmico’ è solo una visione miope della sua poetica. Chi ama la letteratura lo sa e, aggiungo io, chi ama Roberto Vecchioni, anche. Leopardi, come tutti i poeti del mondo che hanno ‘cantato’ la vita, e penso a Pessoa, a Pavese, ma anche ai poeti greci, l’hanno amata, come Saffo che nel suo ultimo canto dice in eterno: “Eppure io l’ho amata questa vita come un continuo, meraviglioso, raggio di sole”.