Barcellona. Artista poliedrico e inquieto, Paolo Maggis ha sempre concepito l’arte come un atto necessario, una ricerca incessante tra gesto pittorico e tensione espressiva. Dalla sua formazione all’Accademia di Brera fino alle esposizioni internazionali, la sua pittura si è evoluta in un linguaggio potente e materico, capace di tradurre sulla tela le contraddizioni dell’esistenza. La sua urgenza creativa, tuttavia, non si è tradotta unicamente nella pittura: con il progetto musicale “tHE cRAVING rOOTS”, Maggis esplora nuove forme di espressione, mescolando sonorità rock sperimentali e testi profondi che affrontano tematiche esistenziali e sociali.
Lo abbiamo intervistato per esplorare il suo universo creativo, dove gesto ed emozione si fondono in un linguaggio pittorico potente e viscerale. L’artista si è raccontato attraverso il suo percorso, riflettendo sull’autenticità, sul valore dell’arte e sulla sfida di restare fedeli alla propria visione in un mondo che consuma tutto troppo in fretta.
La tua carriera artistica si è sviluppata principalmente nella pittura, ma con “tHE cRAVING rOOTS” hai trovato una nuova forma di espressione musicale. Qual è il legame tra il tuo approccio alla pittura e alla musica? Due manifestazioni espressive delle stesse ispirazioni? Hai mai avuto la sensazione che un quadro potesse trasformarsi in una canzone o viceversa?
Da quando sono bambino ho amato solo due cose: la pittura e la musica. La scrittura, l’amore per la letteratura, la poesia, la filosofia, la danza, lo spettacolo… tutto il resto é arrivato più tardi. Io dipingevo e cantavo, cantavo e dipingevo.
Dipingere nel senso letterale del termine. Non ho mai amato disegnare ma bensì intingere il pennello nella pasta del colore e tracciare linee, creare forme, masse che potevo manipolare come fossero plastilina.
Da quando ho coscienza ho sempre cantato, in casa mia la musica era un elemento fondante. Mia madre cantava e suonava la chitarra ad accordi pieni seguendo il canzoniere e mio padre seguiva. Da soli o con gli amici…si cantava ad ogni occasione.
In casa c’erano tanti strumenti da provare, con i quali “giocare” e perdersi per ore.
E poi c’era mio zio che suonava qualsiasi cosa, male forse, ma la cui curiosità e poliedricità era affascinante quanto la pipa lasciata a fumare sul portacenere di fianco al sassofono verde militare con la stella rossa dipinta sopra. Mio zio, inoltre, dipingeva. In maniera gergale forse, ma lo faceva.
Per me la pittura e la musica significavano “casa”, per me la pittura e la musica sono “casa”, il luogo della libertà, l’espressione diretta dei miei sentimenti e dei miei pensieri, il mondo in cui io sto bene.
La musica come la pittura in me vivono insieme da sempre, inscindibili. Non solo il quadro si trasforma in musica e viceversa, son la stessa cosa in forme diverse.
Ad un certo punto della mia vita la pittura ha preso il sopravvento semplicemente perché era stata riconosciuta prima ancora della mia musica anche se, devo ammettere, nascosto dietro ad una tela o ad un foglio mi son sempre sentito protetto, mentre, su un palco, nudo e vulnerabile.
Hai dichiarato che “è l’opera che detta le sue regole, non io che impongo le mie”. Come si manifesta questo processo creativo? Hai mai avuto momenti in cui hai dovuto abbandonare completamente un’idea iniziale per seguire una direzione inaspettata?
L’opera é un essere autonomo. Nasce da una idea o semplicemente dal lavoro meccanico: prendo una tela, un pennello, intingo il colore e traccio una linea. Da dove inizia non è mai così importante, è solo un incipit. Di fatto, l’azione primaria crea a cascata una concatenazione di altre azioni che ad un certo punto non puoi controllare con la ragione perché la ragione stessa, ovvero la parte analitica, è troppo lenta, così lenta da frenare in maniera quasi abortiva il processo creativo.
La nostra mente è un regno senza confini dove vivono una quantità enorme di informazioni, storie, immagini, desideri, pensieri e sentimenti in contraddizione…un groviglio di elementi interconnessi e legati ai sensi, profumi, suoni, sapori, colori…
Per creare basta attingere a questo groviglio, scegliere un filo a caso, tirarlo e lasciare che quel che ne è legato venga fuori con lui.
L’opera nasce assecondando un momento di totale non-coscienza dove la mente, complice la perdita della coscienza del tempo, crea in una specie di vortice che si può solo assecondare.
È l’arte a decidere, musica o pittura che sia. Un artista è colui che accetta che quel che deve accadere possa accadere.
Personalmente considero un’opera tale solo quando nasce in quelle condizioni, perché solo in quelle condizioni può nascere un’opera che mi sorprenda. Così non solo devo abbandonare l’idea iniziale ma devo creare le condizioni affinché esso accada. Ho bisogno dell’inaspettato.
Nei tuoi lavori emerge una forte fisicità della pittura, con pennellate secche, stratificazioni, e una tensione tra costruzione e distruzione. Quanto conta la materia pittorica rispetto all’idea? E quanto la casualità gioca un ruolo nella definizione dell’opera finale?
La materia pittorica è come la terra o come la pelle. È concreta, tangibile, reale. È un essere vivo che, quando pensi di essere riuscito ad addomesticare, ti sfugge. Perché, come la pelle, è solo la superficie di un corpo così complesso e così instabile da non poter mai essere controllato.
La materia pittorica è l’essenza della stessa pittura, è quel che ti permette di sentire quel che accade altrove. O sotto. E quel sotto a volte sei tu o a volte, è un altro da te lontanissimo.
Quando dipingo sposto materia. Quando dipingo a volte trascino materia tanto scarnificarla da sporcare la superficie con il suo sangue, frantumo materia, la sciolgo o la accumulo. Quella materia è la sindone di quel che sono ed in quel che sono credo ci sia anche un po’ di quel che è l’essere umano in senso universale.
Nella materia coesiste splendore e dolore, coesiste amore e odio, quel che vogliamo essere, il nostro desiderio infinito che ci fa sognare oltre e quel vuoto nichilista, quella struggente necessità di distruzione, anche autodistruzione, che abbiamo.
La materia è viva e ti obbliga a seguirla, ti condiziona così tanto da cambiare il corso degli eventi. La materia è crisi, un cambiamento traumatico, un inciampo che ti costringe a rialzarti ferito e ti obbliga a rimetterti in gioco diversamente. A volte per qualcosa di migliore, altre volte per qualcosa di peggiore. Nel secondo caso hai fallito, il dolore è grande. Devi distruggere tutto e iniziare nuovamente.
Nelle tue opere c’è una tensione tra l’urgenza del gesto e una costruzione poetica dell’immagine. Come bilanci questa doppia anima?
Ho sempre avuto il problema di trovare l’equilibrio tra gesto ed immagine, sentire l’immagine tramite il gesto. A volte l’immagine era così forte da rendere il gesto debole, altre, invece, il gesto così irruente da cancellare l’immagine. È ancora un mio cruccio. La magia avviene quando scopro che senza volere queste due necessità han trovato non un punto di equilibrio riuscendo a diventare una sola voce…un po’ come parola e canto.
La costruzione poetica, che poi non è altro che ritmo, metrica e tono, sono insite dentro al gesto che, “sentendo” l’immagine, la traduce enfatizzando ed alludendo a qualcosa che non si può catturare, ma solo indicare.
La poesia non dice, non chiude il senso dentro ad una scatola, la poesia usa la parola per avvicinare ad un sentire che supera la ragione.
Quanto credi che l’aver visitato così tante città durante il tuo percorso artistico abbia influenzato la tua evoluzione espressiva?
Moltissimo. Ogni città é un mondo. Colori, odori, suoni cambiano e ti fanno sentire diversamente la realtà che ti circonda. Se la nebbia di Milano o il cielo grigio riescono ad essere così malinconici tanto da apparire romantici rispecchiando degli stati d’animo che mi appartengono ferocemente, lo stesso cielo a Barcellona getta la città nel baratro della volgarità perché non sembra appartenergli come invece gli appartiene il sole cocente con l’umidità che si eleva a mezz’aria e che profuma a pulsione vitale, sessuale…Berlino in estate è orribile: il verde scialbo degli alberi ed il cielo bianco ti fanno sperare che torni l’inverno che con i suoi colori plumbei e lividi richiama ad un dolore che mi ha sempre ferito.
Le differenti lingue ti obbligano ad un cambio di punto di vista e soprattutto di pensiero, ti cambiano il pensiero. Son le cose quotidiane che ti costringono a cambiare: la scoperta di nuovi modi per descrivere il mondo, i gesti, la forma grammaticale di enunciare un concetto, ti fanno scoprire che tu sei anche un altro iniziando ad amare cose che prima non amavi e capire cose che prima non avresti mai potuto comprendere.
“tHE cRAVING rOOTS” nasce dall’idea di “colmare un vuoto” lasciato dalla musica contemporanea. Esiste un vuoto simile anche nell’arte visiva oggi?
Da qualche anno sento un vuoto enorme. Non nella musica o nell’arte visiva ma in tutta la cultura, forse nella stessa società. Tutto quel che faccio nasce per colmare un vuoto, una voragine che dipende dalla necessità personale. Se qualche anno fa ero in grado di trovare nel mondo, a portata di mano, cultura che potesse dargli un senso, negli ultimi anni non ho trovato più nulla o quasi. Perché oggi il vuoto é soprattutto fuori.
“tHE cRAVING rOOTS” nasce per rispondere a quella necessità. Avevo bisogno di musica che mi nutrisse, a cui pensare, che mi risvegliasse qualcosa di assopito e che mi sorprendesse di nuovo. Doveva essere qualcosa di onesto, vero, fuori dal sistema che sta omogenizzando tutto. E così mi son messo all’opera.
L’arte visiva vive un momento terribile. Viene consumata rapidamente e quindi viene fatta con altrettanta velocità. Velocità non significa qualità e tanto meno profondità.
Arriva, decora, intrattiene ma non ha contenuto. È solo immagine, a volte nemmeno quella. Piatta, ultra piatta nella forma e nei contenuti. Silenziosa non per lasciarci riflettere ma perché non ha più nulla da dire genuflessa alla religione del gusto e delle mode che cambiano ad una velocità che impedisce alle cose di incidere o rimanere.
I grandi artisti concepiscono il loro lavoro come un prodotto, producono per piacere e piacendo cercano solo di piacere di più. Tutti cercano il consenso.
Non mettono in dubbio, non creano attrito, non urlano, non si incazzano. Sono sempre in linea con tutto e disposti a sedersi a qualsiasi tavolo ed acconsentire placidi.
L’arte che ho sempre amato non é quella che mi ha rassicurato o ha confermato le mie posizioni, bensì quella che mi ha abbagliato per la sua bellezza o trafitto per la sua violenza, la cui grandezza mi ha umiliato per poi trasformarmi come persona così da ampliare la dimensione del mio stesso desiderio.
Quella che mi ha messo in dubbio per poi rimettermi in gioco, quella che mi ha cambiato. Definitivamente.
E quali sono, secondo te, le sfide più grandi per chi vuole ancora esprimersi in modo autentico nell’epoca dell’intrattenimento rapido?
Non c’é sfida più grande che quella culturale. Fare cultura, essere cultura. Ma non è possibile la cultura in un mondo che vive senza silenzio, senza tempo per pensare, riflettere, senza il tempo adeguato per contemplare.
L’arte, la letteratura, la poesia, la musica hanno bisogno di tempo ed in quel tempo aver la tua completa attenzione.
La cultura non è per tutti, tutti possono avervi accesso ma solo chi è in grado di sacrificare se stesso mettendosi in dubbio, solo chi è disposto a usare quel tempo che sembra fuggire via sarà in grado di accedere alla sua dimensione profonda ed esserne nutrito. Non si può ridurre la conoscenza ad uno swipe.
Una delle sfide più grandi è riportare le persone a fruire delle opere fisicamente, a frequentare gli spazi espositivi, a vivere i concerti dal vivo, a leggere i libri fisici, a frequentare i teatri…insomma toccare la cultura con mano, sentirne la fisicità e lasciare che quella fisicità tocchi la tua.
I social semplificano la lettura dell’opera, la rendono vuota, piatta, luminosa e ne annichiliscono le sfumature, le imperfezioni, i dettagli. E la poesia risiede nei dettagli. Non è il “cosa”, ma il “come”.
Il mondo digitale doveva essere uno strumento, un modo per comunicare e così portare all’esperienza fisica, ma ci ha superati ed è diventato una realtà ulteriore senza odore ne sudore. E senza odore ne sudore non può esistere l’arte ma solo la sua versione edulcorata.
Bisogna tornare a fare cultura partendo dall’istruzione perché, senza di essa, possono esserci solo paura, distruzione e guerra.
Perché la cultura nutre, la cultura sente, la cultura si interroga, la cultura ascolta, la cultura dialoga, ci cambia di posizione mettendo in dubbio i sistemi e rilancia quel che siamo. E non c’é nulla di più eroico che essere quel che si deve essere. Fuori da ogni schema.
Essere quel che si deve essere ed esserlo fino in fondo. Perché son convinto che in quel fondo ci sia ancora luce, l’unica luce che possa illuminare il mondo.