Bologna. Dal 14 al 19 maggio va in scena al Teatro Arena del Sole “Settimo Cielo”, capolavoro del 1979 della drammaturga inglese Caryl Churchill, diretto dalla regista Giorgina Pi, tra le anime del Collettivo Angelo Mai di Roma (Premio Ubu Franco Quadri 2016). Un viaggio tra le politiche del sesso vissuto da un gruppo familiare, prima catapultato nell’Africa coloniale di fine Ottocento, poi nella Londra swinging della rivoluzione sessuale in piena ribellione punk anni Settanta, in una traversata temporale di 25 anni.
Mai rappresentata prima in Italia, la commedia conserva il sapore di certe ambientazioni di Derek Jarman; l’impeto del movimento delle donne e degli omosessuali di quegli anni in Inghilterra, con Margaret Thatcher che proprio nel 1979 diventa Primo Ministro; il fervore della ricerca di nuove forme che sostituissero l’immagine stereotipa della coppia e della famiglia, per rappresentarne le istanze più aggiornate. Infatti, i personaggi vivono un tentativo di ridefinizione delle proprie identità, provano a superare i ruoli che gli sono stati assegnati, in un continuo parallelo tra oppressione coloniale e sessuale. Così, immerso in una dimensione queer e punk, Settimo Cielo deborda tra continenti e secoli: “essere quello che si vuole essere, non quello che si può. È il divenire postumano che modifica luoghi e relazioni”, riflette la regista Giorgina Pi.
L’Africa coloniale del primo atto è quella terra dei neri diventata una cartolina dei bianchi. Nei ruoli invertiti rispetto alle sessualità supposte (uomini interpretati da donne e viceversa) o al colore della pelle (neri interpretati da bianchi) – è il “cross casting” voluto da Caryl Churchill – risuona l’importazione inglese della cultura omofoba in Africa. L’“erotica” invenzione del selvaggio, le leggi punitive contro gli omosessuali che la Gran Bretagna impose nelle sue colonie e che ancora oggi dilaniano l’Uganda e altri paesi con il carcere a vita per gay e lesbiche. Un parco nel 1979 e un esploratore nel 1879 si trasfigurano in Brexit, nel Mediterraneo che affoga l’Africa, nel vecchio continente lacerato dal proprio sentimento paternalista e dall’inganno eteronormato che lui stesso ha inventato, a partire dal concetto di famiglia. Quarant’anni dopo resta intatta l’ossessione di controllare i corpi e l’urgenza di difendere la libertà di “vivere come si vuole e non come si può”. Le politiche del sesso tornano centrali per sciogliere ingiustizie di classe e condizionamenti di vita inaccettabili e con esse le lotte delle donne e dei movimenti LGBTIQ.
“Il rapporto tra sesso e potere attraversa ancora i nostri giorni, e questo ci rende autori di quest’opera: del terzo atto, quello mai scritto – continua Giorgina Pi, che racconta Settimo Cielo come un testo costruito su una vertigine sociale, artistica, intima, storica di cui resta oggi intatto “lo slancio, la necessità di percorrere una battaglia anche camminando sul suo crinale”. Gli uomini e le donne di questa storia sono dei transfughi, nei secoli e nei luoghi: soggettività escluse, impreviste, che tentano tra un atto e l’altro un processo di liberazione dal colonialismo imposto sulle loro vite. Settimo Cielo è un’opera di decolonizzazione che passa attraverso il teatro come strumento di rivolta. La sola cosa data è la presenza dell’attore e dell’attrice e la fisicità di queste vite. Per Churchill è impedenza all’infelicità e si nutre nell’intersezione delle loro differenze. L’imprevedibilità spazio-temporale-sessuale è diaspora continua con il realismo, è fioritura di regni. Del resto, negli stessi anni, sempre a Londra, succede qualcosa di simile in Jubilee di Jarman. Ariel e la Regina Elisabetta piombano nella vita di un gruppo di punk, e ci appare chiara la potenza della rivoluzione del “non solo”. Non solo uomo, non solo donna, non solo lesbica, non solo gay. Non solo e di più. E ancora: non solo negro e non solo tutto ciò che dobbiamo oggi aggiungere con fermezza”.
“Settimo Cielo” porta in scena una famiglia e il suo entourage: parenti, amici, conoscenti e amanti. Nel primo atto Churchill sceglie di usare il “cross casting” ricreando un girotondo di adulteri commessi e fantasticati, un intreccio di passioni che nella pervasività di un artificio esibito mette in ridicolo l’ideologia patriarcale e imperiale che li anima. Nel meccanismo teatrale si ironizza sull’ipocrisia della censura nella letteratura vittoriana ai riferimenti sessuali che aveva l’effetto di riempirli di sottotesti erotici. La molteplicità delle passioni si complica quando la presenza sulla scena di corpi maschili e femminili smentisce paradossalmente il carattere trasgressivo di rapporti omosessuali tra personaggi incarnati da interpreti di sesso diverso e problematizza quelli eterosessuali tra personaggi affidati a interpreti dello stesso sesso.
Il cambiamento è la cifra del secondo atto, un cambiamento cercato attraverso la sperimentazione e l’interrogazione di sé, che coinvolge soggetti che nel primo atto erano socialmente repressi: donne e omosessuali. In una situazione in cui le concezioni di femminilità (e mascolinità) cominciano a non essere più rigidamente codificate, e sono diventate visibili, legittime e pubblicamente agibili orientamenti sessuali diversi, i personaggi si muovono incerti ma pronti a reinventarsi nelle relazioni – soprattutto quelli che, invecchiati di soli venticinque anni, portano in sé l’eredità vissuta delle norme vittoriane. Più consapevoli, si trovano ancora a dover fare i conti con la naturalità di ruoli, comportamenti e inclinazioni a seconda del sesso biologico, del colore della pelle, della cultura in cui si è nati, una concezione della famiglia strutturata sulla coppia eterosessuale, la tendenza a riproporre nel processo educativo le modalità impositive subite.