“L’origine del mondo. Ritratto di un interno”, tre donne a confronto per raccontare la depressione

Napoli. Dal 13 al 17 novembre al Teatro San Ferdinando è in scena “L’ORIGINE DEL MONDO ritratto di un interno”, in tre atti di 50, 40 e 35 minuti.
L’autrice e regista Lucia Calamaro ha scritto nel 2011 questo lungo monologo per sviscerare tutte le pieghe e le diverse facce in cui si manifesta e si affronta la depressione, avvertendo, oggi che questa patologia è la più diffusa nel mondo, la necessità e l’urgenza sociale di riproporlo, rivisitato, grazie al Teatro di Roma e al Teatro Nazionale, che ne hanno curato la produzione, presentandolo per primo al Teatro Argentina di Roma.
In un interno, spoglio, totalmente buio nel primo atto, campeggia un frigorifero Sangiorgio, che tenuto aperto per quasi tutto il tempo è l’unica fonte di luce a illuminare l’essenziale, ossia la figura di Concita De Gregorio, che di schiena al pubblico, con l’immancabile sigaretta a farle compagnia, passa in rassegna minuziosamente tutto il cibo presente sui ripiani dell’elettrodomestico.
Ed è cibo fresco, processato, ultra processato, salato, dolce, integro, ancora confezionato, già morsicato con il quale vorrebbe soddisfare quella fame notturna che la tiene sveglia nel cuore della notte.
Non è un bisogno fisico, volto a eliminare un languore, ma qualcosa di più profondo, chiuso in mezzo al petto, tant’è che la sua scelta non ricade su nulla, se non il fumo della sigaretta che continua a inspirare ed espirare, come se avvertisse la necessità di liberarsi e le parole da sole non fossero sufficienti.
Apre il frigo e apre il suo cuore, la sua mente, scavando all’interno di se stessa, cercando le ragioni più profonde del suo malessere, mettendosi a nudo e cercando di renderlo non solo metaforicamente ma anche materialmente, optando per un abito nuovo, di tulle, color carne, che aveva acquistato per ritirare un premio, ma che poi non aveva utilizzato.
E decide di farlo quella notte, senza rinunciare però alla comodità dei calzini per riparare i piedi dal freddo e le ciabatte da casa, comode, acquistate in stock da tre.
Concita è una donna depressa, che non vede altro che se stessa e i propri problemi, dimenticandosi della sofferenza dei familiari che pur non volendo sono coinvolti nel dramma vissuto dal loro caro.
In questo microcosmo tutto al femminile si fa solo menzione alla figura maschile del marito, quasi come se la depressione fosse un affare di donne, e così c’è lo scontro e confronto con le altre due: la figlia (Carolina Rosi), impossibilitata a vivere la propria età, in bilico tra l’abbandonarsi della madre e il reagire della nonna (Mariangels Torres), che cerca di scuotere Concita, accusandola, offendendola anche percuotendola con una schiaffo, per poi invitarla al fare piuttosto che al cogitare, regalandole delle canne di bambù, perché le sistemi nel vaso, come un esercizio giapponese di riordino esterno ma soprattutto interno.
Nel monologo viene citato e anche mostrato un piccolo quadro raffigurante la natura morta di Giorgio Morandi, famoso per rappresentare elementi quotidiani come bottiglie, caffettiere, contenitori, vasi, bicchieri, elementi naturali caratterizzati da pochi colori.
Forse scelto nella narrazione proprio perché la sua pittura è frutto di una meditazione paziente, profonda, intellettuale degli oggetti, sempre uguali a loro stessi, di cui il pittore approfondisce solo il ritmo, i contorni e i riflessi con grande rigore, conferendo così loro una grande solennità, pur nella loro semplicità.
Ed è lo stesso atteggiamento di Concita rispetto ai suoi pensieri, dopo avere attraversato il turbinio simboleggiato dalla centrifuga della lavatrice arancione, che occupa lo spazio centrale del palcoscenico nel secondo atto, con un messaggio positivo: “la depressione non è una condanna a morte”, ma va affrontata perché dalla stessa si può uscire.
Da un inizio completamente buio, poi illuminato da una luce parziale e intermittente, si passa a quella che è accecante, disturbante, con la quale si fa fatica a tenere gli occhi aperti, ma dà la possibilità di vedere i colori, innaturali, che connotano il secondo e terzo atto e soprattutto le persone che restano – a loro modo – a scuotere il depresso dal proprio stato.
Concita De Gregorio è perfetta nell’interpretare la malinconia di Concita la protagonista, brava Carolina Rosi, che si sdoppia nel ruolo della figlia insicura e alla ricerca di una propria identità e della psichiatra che, al contrario, racchiude in sé delle apparenti stereotipate certezze; infine, è esilarante e trascinante Mariangels Torres nel ruolo della nonna.

Crediti foto: Claudia Pajewski.

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